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Questioni di egemonia

Nicola Melloni * - 06.02.2019
Alexandria Ocasio-Cortez

L’arrivo della socialista Alexandria Ocasio-Cortez a Washington ha scatenato un putiferio. La sua prima uscita politica – la richiesta di alzare le tasse per i contribuenti più ricchi – ha fatto imbizzarrire i repubblicani e messo in forte disagio i democratici.

La Ocasio-Cortez, nota ormai come AOC, è forse il volto più noto dell’onda socialista che sta attraversando l’America, qualcosa che fino a pochi anni fa sarebbe stato assolutamente impensabile. Eppure, al contrario di molti paesi europei, negli USA la crisi è stata una opportunità per la sinistra “radicale” – un termine su cui torneremo.

La richiesta di alzare l’aliquota marginale sui redditi più alti al 70% non è una boutade casuale. Non che abbia alcuna chance di diventare legge, ma è chiaramente parte della definizione di una piattaforma politico-economica coerente in vista delle prossime primarie. Si tratta di un programma di marca chiaramente socialdemocratica: dalla sanità pubblica alla redistribuzione attraverso la leva fiscale. Financo Elizabeth Warren – una democratica vecchio stile, non una socialista, ma col rigore morale dei classici liberali trust-buster che la fa apparire, oggi, una rivoluzionaria – si è detta a favore di una tassa sulle ricchezze (e non solo sul reddito) più elevate.

I provvedimenti in gioco non sono classicamente populisti, anzi, rientrano all’interno di un perimetro cauto e moderato anche se senza dubbio progressista. Come ha rimarcato Krugman, livelli alti di tassazione per i redditi maggiori sono stati la normalità fino all’epoca Reagan e in ambito di letteratura economica mainstream si è arrivati a calcolare che il tasso ottimale di tassazione possa essere intorno all’80%.  Le proposte della Warren di spezzettare il sistema finanziario per evitare una riedizione del “too big to fail” hanno goduto di grande appoggio tra la maggioranza degli economisti liberali dopo il fallimento di Lehman Brothers. La sanità pubblica è una ovvietà per chiunque abiti fuori dai confini statunitensi.

La portata politica di queste misure economiche è però assai più radicale e strizza l’occhio, se vogliamo, ad una propaganda più propriamente populista che contrappone le élite alla volontà popolare. Con diverse ragioni. Come noto, i meccanismi della politica americana hanno tratti oligarchici: le attività di lobbying contano a volte più degli elettori, le elezioni si vincono coi finanziamenti e, secondo  , la capacità di essere rappresentati è direttamente proporzionale al reddito, creando di fatto un sistema di voto ponderato. Ecco allora che richiedere un aumento delle tasse sui redditi più alti equivale, come sostengono Saez e Zucman, ad attaccare la concentrazione non solo economica ma, appunto, politica. Rompere l’oligopolio bancario significa ridiscutere il ruolo di Wall Street, così come decurtare il business delle assicurazioni mediche. La differenza – sostanziale – con l’attacco alla “casta” che ben conosciamo è la capacità di individuare nel sistema economico le radici di una democrazia malata. E non a caso la reazione dell’establishment politico è stata molto dura: i repubblicani hanno dato sfoggio della solita violenza verbale, definendo AOC anti-americana; ma queste proposte di riforme sono mal viste anche dai liberals democratici, molto attenti agli equilibri politico-economici propri della politica americana.

 

Al fronte unito della politica tradizionale si contrappone però un fermento sociale notevole: le proposte della sinistra sono diventate il tema centrale del policy debate e godono di un forte sostegno popolare. È un dato che dovrebbe far riflettere la politica in generale: un movimento di testimonianza come Occupy, una campagna elettorale persa come quella di Sanders e la presenza sparuta di alcuni eletti socialisti al Congresso – quello che in Italia in molti definirebbero, parafrasando, “vocazione minoritaria” e “forza di opposizione ma non di governo” – sono riusciti a imporre il proprio vocabolario e la propria agenda. Si ribalta così un modo di far politica basato sul compromesso al ribasso, su alleanze spurie in nome del “male minore”, sulla vittoria elettorale, costi quel che costi, come alfa e omega della missione politica; puntando invece sul medio-periodo, sulla capacità di costruire una base di consenso intorno ad idee progressiste ed in totale discontinuità con l’egemonia culturale neo-liberista che ha caratterizzato quasi un quarantennio di politica elettorale e di policy-making.

 

In effetti, a ben guardare, le proposte dei Socialisti Democratici (DSA) sono ideologicamente dirompenti proprio perché mettono in discussione le parole d’ordine del pensiero manistream: la sanità diventa un diritto, non più una semplice funzione economica basata sulla (supposta) efficienza del privato – non a caso Sanders insiste soprattutto sulla rivendicazione sociale di tale provvedimento; le tasse più alte sono la negazione dell’idea stessa di trickle down che è stato forse il più forte elemento di propaganda neo-lib degli ultimi 30 anni: lasciate che i ricchi si arricchiscano, e tutto il paese ne beneficerà. I DSA, in questa maniera sono riusciti a cogliere ben tre piccioni con una fava: proposte economiche di redistribuzione, attacco politico all’establishment che richiama da vicino Occupy e il suo “siamo il 99%” e proposta ideologica alternativa. Una sfida difficile ma che, numeri dei sondaggi alla mano, non sembra impossibile.

 

 

 

 

* DPhil, Visiting Fellow, Munk School of Global Affairs, University of Toronto