Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Politica estera e polemiche di routine

Paolo Pombeni - 31.01.2024
Meloni Italiafrica

Ci interroghiamo su quanto conti la politica estera nel raccogliere il consenso di un paese (anche di quello elettorale a cui tanto si guarda in questi mesi). La domanda sorge spontanea nel momento in cui la premier Meloni ha insistito molto su quest’ambito, mentre l’opposizione non la prende adeguatamente in considerazione.

Se dovessimo giudicare dal nostro retroterra storico, concluderemmo che l’opinione pubblica italiana non è mai stata particolarmente attratta dai temi della politica internazionale. Sebbene da qualche decennio i giornali abbiano ampliato gli spazi di analisi per quel che accade nel mondo (prima l’attenzione a questi aspetti era assai più limitata), nel complesso non si può dire che il modo di approcciare le tematiche di politica estera vada oltre qualche ripetizione di slogan e pregiudizi che ciascuna delle parti in campo ha elaborato nella lunga vicenda della sua propaganda politica.

L’eccezione è data dalle figure che guadagnano uno spazio di governo dopo momenti di crisi o anche solo di sbandamento. De Gasperi dimostrò una notevole capacità di cogliere l’importanza delle relazioni internazionali (ma l’aveva sempre fatto anche quando era suddito dell’impero asburgico), ma anche Fanfani e Craxi si impegnarono su quei terreni. Lo stesso fece, pur in modo più che pasticciato, Berlusconi. Draghi è una eccezione, perché non era un politico alla ricerca di consenso. Qui ovviamente non prendiamo in considerazione i doveri di routine dei presidenti del Consiglio e ancor meno dei ministri degli Esteri, i quali per dovere d’ufficio non possono tenersi lontani da quelle problematiche. Ci riferiamo alla scelta di voler marcare una presenza giocando un ruolo in momenti molto significativi per la gestione della politica estera del nostro paese.

Giorgia Meloni ha puntato su questa carta in modo deciso. Lo si è visto sia nelle scelte relative alla questione della guerra russo-ucraina, sia nella sua attività a livello di Consiglio Europeo. Adesso lo vediamo decisamente nella sua gestione del cosiddetto “piano Mattei”, cioè nella proposizione di un terreno di confronto e di accordo con la realtà africana, che per metà è una polveriera e per metà una miniera di opportunità di investimento sul futuro.

Decidere da subito quanto questa intrapresa sarà di successo sarebbe sbagliato: processi di questo tipo hanno bisogno di tempo e devono misurarsi con contesti e con circostanze che non sappiamo quanto saranno per così dire collaborative. Tanto per dire: non sappiamo se i paesi europei più coinvolti come presenza in Africa, a cominciare dalla Francia, accetteranno di riconoscere all’Italia il ruolo che le spetterebbe per l’attivismo attuale; ancor meno sappiamo come reagiranno all’iniziativa italiana la Russia, la Cina, ma anche la Turchia e alcuni paesi arabi che stanno investendo molto in Africa.

Qui però vogliamo considerare se la politica internazionale possa servire a Meloni per consolidare e magari allargare il perimetro del suo consenso anche elettorale. La faccenda è ambigua. Da un lato sicuramente in coloro che appoggiano la attuale premier il poterla considerare uno “statista” è un elemento di conferma della loro scelta di campo. Dal lato opposto la gran parte dell’opinione pubblica continua ad essere disinteressata a quanto accade nello scacchiere internazionale. Eccetto, si capisce, per le scelte in senso lato ideologiche: ma si tratta di pre-giudizi che non servono a spostare consensi perché ciascuno resta sulle sue posizioni di partenza.

Detto questo stupisce che le opposizioni non comprendano che la loro sostanziale assenza dal campo delle relazioni internazionali le indebolisce molto: non per il consenso allargato, dove per mantenerlo basta agitare un po’ di frasi fatte e di slogan predigeriti, ma per il consenso di una parte significativa dei ceti dirigenti del paese. Questi sono ormai internazionalizzati di fatto perché vivono in un sistema di relazioni e di scambi che vanno molto al di là della dimensione nazionale e di conseguenza comprendono che senza una presenza forte in politica estera la nostra collocazione nel mondo si indebolisce.

È comprensibile che la posizione delle opposizioni, o almeno quella dei loro esponenti che sanno cosa sia la politica internazionale (pochini in verità), sia difficile: se mostrano di apprezzare gli sforzi del governo pur criticandoli, rafforzano l’avversario; se si mettono a fare quelli a cui non va mai bene niente finiscono nel ridicolo. Tuttavia non è sensato pensare di ignorare queste problematiche puntando solo sulle ormai logore ritualità movimentiste: sit-in contro la RAI (Conte, che è furbo, ha capito subito che per la gente la lottizzazione non è una prerogativa della destra), piagnistei sulla presunta manomissione della democrazia costituzionale, sostegno a un po’ di cause propagandistiche tipo una espansione di cosiddetti diritti civili o l’invocazione di riforme radicali nel mercato del lavoro.

Non che in ognuna di queste e di altre questioni-bandiera non ci siano elementi di verità, ma non si possono ridurre a slogan slegando tutto dal rapporto con la turbolenta realtà internazionale in cui ci troviamo coinvolti. Se non c’è una gran cultura diffusa in materia di valutazione delle relazioni internazionali, esiste pur sempre la sensazione generale che lì ci sono questioni dirimenti che sarà necessario affrontare di petto.

Lasciare che ciò porti ad auspicare il leader cosiddetto forte a cui demandare questa partita non è una buona soluzione. Ma perché ciò non accada sarebbe necessario avere la presenza di una classe politica collettivamente in grado di prendere in mano i problemi e di discuterne con competenza.