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Politica e mass media: dalle passioni alle emozioni

Luca Tentoni - 14.07.2018
Tweet Matteo Salvini

Nei precedenti interventi su Mentepolitica si è fatto riferimento all'estrema volatilità (per certi versi volubilità) che caratterizza una parte consistente dell'elettorato italiano. Fra le tante interpretazioni possibili del fenomeno (oltre alla mobilitazione permanente, figlia di una campagna elettorale ininterrotta e all'affermazione di "partiti del leader") c'è anche un fattore che insieme è tecnico, politico ed emotivo. Lo sviluppo dei social network e il loro utilizzo come arma di diffusione dei messaggi politici, ma anche di lotta fra partiti e leader (oltre che fra i supporters dei diversi schieramenti, incitati a lanciarsi in duelli virtuali "all'arma bianca" da una comoda tastiera di computer contro altri utenti, creando masse di manovra e acuendo fratture sociali e culturali già esistenti nel mondo reale) ha orientato lo stesso rapporto fra i soggetti politici e gli operatori dell'informazione ad adeguarsi a ritmi e a canoni comunicativi molto diversi rispetto al passato. La stessa crisi della carta stampata, il calo di attenzione dei lettori nei confronti di articoli lunghi, rendono ormai necessari messaggi brevi, diretti. Una buona battuta, uno slogan, un'invettiva sintetica sono molto più efficaci di discorsi ponderati, ricchi di contenuti, di idee, di progetti concreti. Accade un po' ciò che successe molti anni fa quando l'audience televisiva diventò l'unico metro per giudicare ciò che è valido e ciò che è scadente (ben sapendo, però, che confrontare sul piano dell'ascolto la più brutta partita della nazionale italiana di calcio, quella dell'eliminazione con la Svezia, con - poniamo - una rappresentazione della "Medea" di Euripide o della "Cantatrice calva" di Ionesco in onda su un altro canale, non può che portare alla vittoria della prima sulla seconde). Ogni leader è figlio della sua epoca, certo. Quindi non ci si stupirebbe se i ragionamenti di Moro o di La Malfa venissero oggi surclassati da un twitt di Salvini (come, qualche anno fa, da quelli di un Renzi allora in auge). Così come Mussolini impiegò qualche anno (non molti, in verità) ad accorgersi delle enormi potenzialità della radio prima e della cinematografia poi, allo stesso modo gli uomini politici degli anni Sessanta hanno dovuto familiarizzare con la televisione ("Tribuna politica") e, in seguito, con l'ambiente un po' più informale dei talk show ("Bontà loro" fu, a metà degli anni Settanta, il primo grande successo di una lunga serie). Poi vennero gli anni degli spot politici sulle televisioni commerciali. Si iniziò a "vendere un partito" (dal titolo di un famoso libro) con le tecniche del marketing pubblicitario. Tuttavia, la televisione di Stato trasmetteva ancora interminabili "pastoni politici" nei telegiornali. La "disintermediazione" era ancora lontana dall'affermarsi. Il potere mediatico era appannaggio di pochi leader, che avevano la possibilità di concedere lunghe interviste ai quotidiani, di apparire in televisione, mentre le seconde e terze file restavano in ombra. Quando arrivò Internet, alla metà degli anni Novanta, la politica sembrò non accorgersi del fenomeno. Lo fece, tardivamente, sull'esempio statunitense, dopo la vittoria di Obama. Vi approdarono, molto gradualmente, alcuni leader (altri ci sono arrivati tardi o non hanno saputo usare i social media). L'avvento e la diffusione di Facebook e Twitter fecero comprendere a taluni che si poteva creare consenso sostanzialmente dal nulla, dando vita a bolle mediatiche destinate a gonfiare le vele di nuovi leader e soggetti politici. Gradualmente, la nuova moneta scacciò la vecchia, imponendo un ritmo comunicativo e un registro ben diverso rispetto al passato, accentuando il cambiamento già impresso dal successo di Berlusconi (un vero re del marketing, che da questo punto di vista può essere considerato il fondatore della "Seconda Repubblica" della comunicazione politica) nel 1994. Lo stesso Cavaliere, però, negli ultimi anni ha finito per venire travolto da un alleato più giovane e "social" (Salvini) capace di intuire e sfruttare nel migliore dei modi (ai fini della costruzione del consenso) i nuovissimi mezzi di comunicazione. Non è un caso che i protagonisti politici di questi ultimi cinque anni siano stati Matteo Salvini, il M5S e Matteo Renzi, cioè coloro i quali hanno spostato il "quartier generale" del proprio agire politico sui social media. Le dichiarazioni più importanti non sono più passate per comunicati ufficiali (a partire dal famoso "Arrivo, arrivo!" di Renzi che era ancora nello studio del Presidente della Repubblica con la lista dei ministri) ma per i post dei leader (ora si usano anche i filmati fatti col proprio telefonino, con risultati visivi spesso non tecnicamente esaltanti). Se già da decenni le prime pagine dei quotidiani diventavano "vecchie" in tarda mattinata, ora i siti internet dei giornali non riescono sempre ad intercettare in tempo reale i twitt o i post che possono contraddistinguere la giornata politica. Persino il presidente degli Stati Uniti si collega e twitta - in modo spesso polemico o con un linguaggio talvolta "forte" - scatenando reazioni immediate in tutto il mondo. In questo scenario, che taluni magnificano come il trionfo di una disintermediazione che dovrebbe rappresentare la "liberazione dell'utente elettore", nasce invece dell'altro. Questa "edizione straordinaria" permanente, che spinge a consultare i telefonini in modo sempre più compulsivo e che stravolge ritmi, tempi e linguaggi dell'informazione di giornali e Tv, induce nel fruitore comune dei messaggi uno stato di mobilitazione permanente. Se a questo si aggiunge lo spostamento della militanza dal mondo reale ai social (dove può essere attiva per parecchio tempo al giorno e con una "potenza di fuoco" notevole, sul piano polemico) si ha un accrescimento della componente emotiva della politica. Alle passioni ideologiche del Novecento si sono sostituite le emozioni intense e fugaci dei nostri giorni. Il susseguirsi degli hashtag (#) e dei "trending topics" propone continui motivi per mobilitarsi, anche a distanza di poche ore. È (non solo, certo) per questo che i sondaggi sulle tendenze di voto danno risultati diversi ogni settimana, mentre negli anni '70-'80 (quando si facevano ben poche rilevazioni) non cambiavano significativamente se non a distanza di mesi. Quella misurata dai sondaggi è l'intenzione di voto, non il voto; è l'emozione del momento, non la convinzione. Dunque, può rafforzarsi o indebolirsi o cambiare del tutto. L'importante è che in questo stato di continua mobilitazione emotiva dell'elettorato reale e potenziale, ci siano leader in grado di tenere alta la tensione. I contenuti, se e quando (e in quanta misura) sono presenti, sono funzionali all'efficacia del messaggio. Fino a quando i temi riescono a coinvolgere la sfera del singolo, il suo bias cognitivo di conferma e non confliggono con la sua realtà, l'intenzione può trasformarsi in un voto. Ma quando, alzando lo sguardo dal telefonino, ci si trova davanti a qualcosa che stride pesantemente col messaggio (e incide dolorosamente sulla vita del singolo) allora neppure il più abile marketing politico funziona. È così che si producono crolli elettorali mai visti in passato, allo stesso modo come si sono create o si creano "bolle elettorali" enormi. Il punto è che alla complessità dei problemi (aggirabile temporaneamente con le semplificazioni e gli slogan) non si può sfuggire troppo a lungo, salvo poi scontrarcisi violentemente. Alla fine, il reale e il virtuale si trovano di fronte (stavolta sì, senza mediazione e senza l'illusione che essere iscritti ad un social e dire la propria possa cambiare davvero le cose) con esiti che nessun "grande fratello" può prevedere o preordinare.