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Oligarchia e populismo in Brasile

Nicola Melloni * - 14.04.2018
Ricardo Hausmann

Quanto successo in questi giorni in Brasile merita qualche riflessione. Non solo per la portata politica del caso Lula, ma perché ci dice molto del rapporto tra oligarchie e populismo e della crisi della democrazia. Di questo in effetti si tratta, e non di un semplice caso di corruzione, come parrebbe a leggere la maggioranza della stampa occidentale. L’inchiesta Lava Jato, che ha scoperchiato quello che tutti sapevano – che la politica brasiliana fosse profondamente corrotta, compresi molti esponenti del PT – è, in realtà, servita come grimaldello per scassinare le istituzioni democratiche: Dilma, lontana da ogni accusa di corruzione, fu sottoposta a impeachment per fatti politici ridicoli – un uso invero illegale del rifinanziamento pubblico, una pratica consolidata da tutti i governi brasiliani, di qualsiasi colore; ed ora, dopo le minacce nemmeno tanto velate di un colpo di stato militare, Lula viene condannato da corti tutt’altro che imparziali, per supposti reati che non reggerebbero la prova di processi seri. La gogna mediatica e l’impegno della magistratura è tutta per il PT, mentre i vari esponenti della destra brasiliana, colpevoli di ben più gravi reati, sono lasciati in pace.

E’ la resa dei conti voluta dall’establishment, stanco di ingoiare bocconi amari e impaziente di riprendere il totale controllo delle redini della politica. La storia ci insegna che i liberali latino-americani non sono mai stati particolarmente democratici: hanno costruito le peggiori oligarchie del mondo, affamato le loro popolazioni, incrementato le diseguaglianze come nessuno. In passato, ogniqualvolta i loro interessi sono stati messi in dubbio, non hanno esitato a schierarsi coi militari per difendere i loro privilegi. Anche in questi anni, l’oligarchia non ha mai veramente accettato l’idea che potessero essere i “poveri”, magari non bianchi, a governare. Ad ogni occasione hanno tentato di rovesciarli, di punirli, di dare loro una lezione. In Brasile, certo, con il colpo di palazzo contro un Presidente democraticamente eletto ed una inchiesta ad personam per impedire la candidatura al politico più popolare del Paese; ma anche in Venezuela dove, insieme ai disastri economici e la svolta autoritaria di Maduro, varrebbe la pena di ricordare che la cosiddetta opposizione democratica ha tentato a più riprese il colpo di mano: golpe, impeachment, scontri di piazza, rifiuto di accettare i risultati elettorali anche quando, in passato e non certo ora, le elezioni venezuelane venivano definite dagli osservatori internazionali come le più democratiche al mondo.

Più in generale, tra queste élite vendicative e affamate di potere non vi è in atto alcuna riflessione critica sulla questione sociale che ha portato alla nascita dei movimenti di protesta che hanno poi preso il potere. C’è semplicemente la fretta di chiudere i conti con il recente passato e con lo spettro del populismo e riportare indietro le lancette dell’orologio della storia. E’ illuminante leggere quelli che possiamo definire come manifesti politici dei liberali latino-americani, amati dall’establishment occidentale. Da una parte c’è la totale incapacità di comprendere le basi sociali della democrazia: i programmi di inclusione e riduzione delle diseguaglianze, il cui successo solo la destra più becera può fingere di ignorare, sono irrisi e criticati; l’unico obiettivo economico è riportare in ordine i conti macroeconomici. Quello politico è difendere i diritti dei capitalisti, descritti come una minoranza sotto attacco. Dall’altra c’è l’esigenza di cancellare l’alternativa politica: secondo Ricardo Hausmann, che paragona Chavez a Hitler, il chavismo, una ideologia politica nata dal sollevamento dei poveri contro una società oligarchica e diseguale e che, nel bene o nel male, rappresenta quasi metà della popolazione venezuelana, deve essere abolito per legge.

Tutto questo dovrebbe invitare qualche riflessione anche sulla situazione europea. Il crescente divario tra ricchi e poveri, l’arroganza e la cecità delle élite, il fallimento sociale ancora prima che economico delle politiche liberali hanno portato ad una crisi della democrazia e alla nascita di movimenti populisti che, in Europa, a differenza che in America Latina, sono spesso di destra. Il dibattito tende a concentrarsi su aspetti triviali – Facebook, la Russia – senza approfondire la cause del malcontento, in questo replicando l’arroganza dei liberali latino-americani. I partiti anti-establishment sono trattati con sufficienza, quando non con disprezzo, riconoscendo loro a stento una pari dignità politica. Il problema, per alcuni, sembra essere l’eccesso di democrazia, o il popolo ignorante vittima dei demagoghi – un discorso politico pericoloso, perché non solo evita di discutere le cause della situazione corrente, ma suggerisce implicitamente un restringimento degli spazi democratici per impedire la messa in discussione del liberalismo come ideologia dominante, qualcosa di molto simile a quanto suggerito da Hausmann. Se non si comincerà a cambiare rotta, gli eccessi e le crisi del Sud America rischiano di diventare il futuro dell’Europa. 

 

 

 

 

* DPhil, Visiting Fellow, Munk School of Global Affairs, University of Toronto