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Nuova guerra, vecchia musica

Massimiliano Trentin * - 16.09.2014
Jabhat al Nusra

Il Presidente statunitense Barack Obama ha annunciato il 10 settembre la strategia di attacco contro le forze dello Stato Islamico (IS), il movimento islamista radicale che ha conquistato ampi territori a cavallo tra Siria e Iraq e che ha proclamato il nuovo Califfato: attacchi aerei a sostegno delle offensive dei curdi a nord, e dell'esercito iracheno da sud ed est; invio di quasi 475 esperti USA per azioni di intelligence e sostegno tecnico, oltre ai 150 già presenti in loco; azioni di anti-terrorismo per minare le risorse umane e finanziarie dell'IS; aiuti umanitari alle popolazioni colpite. Le novità più importanti riguardano l'estensione degli attacchi aerei già in corso in Iraq anche alla Siria e la costruzione di una grande coalizione internazionale a guida Usa di cui i Paesi arabi conservatori costituiscono l'asse portante.

Questi sono i propositi di Washington che, nei fatti come nella retorica, ripropongono un modus operandi già conosciuto in passato, e soprattutto ben noto a chi in Medio Oriente ci vive. Peraltro, fu Bush jr. e il suo ideologico, bellicoso unilateralismo a costituire una breve discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera Usa, di cui la Presidenza Obama è custode. Dopo aver perso quella capacità di dominio e di leadership che Washington aveva conquistato in Medio Oriente tra il 1991 e il 2003, proprio a causa del fallimento dell'occupazione dell'Iraq gli Usa vogliono ribadire ai propri rivali ed alleati come il loro intervento militare sia ancora "determinante" e come siano in grado di mobilitare e allineare la maggior parte degli stati della regione sotto la loro leadership. Una riproposizione della più classica strategia di "egemonia" e, di quel Manifest Destiny che renderebbe gli Usa "eccezionali" nella storia mondiale; dalla "Responsability To Protect", o "Leading from Behind" si torna alla più tradizionale "Responsability To Lead".

 

Se le capacità belliche Usa hanno già dimostrato di essere determinanti, ma non risolutive, per i conflitti armati in Medio Oriente, è utile concentrarsi sulla capacità di esercitare la leadership nei confronti degli alleati e dei partner nella regione. Qui, vediamo come Washington possa contare sull'appoggio politico, finanziario e in parte logistico di tutti i Paesi arabi del Golfo, della Giordania e dell'Egitto. Ruolo chiave lo gioca il regno dell'Arabia Saudita, che in questo modo ricuce i rapporti con gli statunitensi dopo le tensioni degli ultimi anni. In cambio del sostegno alla lotta contro lo Stato Islamico, Washington si impegna maggiormente contro Damasco, venendo così incontro alle richieste pressanti, se non ossessive, di Ryad. I dirigenti sauditi, in competizione con la monarchia del Qatar, hanno sostenuto le opposizioni islamiste arrivando a finanziare ed armare i gruppi più radicali. Nelle ultime settimane le opposizioni anti-Asad sono avanzate nel Golan siriano: addestrate da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in Giordania, rifornite di armi con i soldi sauditi e del Golfo, godono infine dell'appoggio de facto di Israele a cui interessa più bombardare e indebolire l'esercito siriano che non le opposizioni, anche se costituite da Jabhat al Nusra affiliata di al Qaida. Sul campo, i confini tra "moderati" e "radicali" sono molto più labili di quanto siano sulla carta e nelle dichiarazioni pubbliche.

Sempre in termini di alleanze, il punto più controverso riguarda l'intervento in Siria. Obama esclude qualsiasi accordo con Damasco e questi considera ogni attacco non concordato come un "atto di aggressione". Sorgono così dubbi tra gli alleati europei, perfino in Francia e Gran Bretagna, e le critiche di Russia e Iran. Il pieno appoggio Usa ai curdi iracheni, poi, suscita i timori della Turchia come dell'Iran e della stessa Baghdad per la possibile indipendenza del Kurdistan iracheno. A ben vedere, la "broad coalition" a guida Usa sembra dunque aprire tante fratture quante dice di volerne chiudere. Forse appunto perché intende proseguire nell'opzione militare, quindi di destabilizzazione e logoramento, invece di optare per una soluzione politica e diplomatica, e dunque negoziata alla guerra in Siria.

 

Sembra paradossale, ma in fin dei conti non lo è, il fatto che proprio i dirigenti politici che hanno permesso l'ascesa delle forze islamiste radicali in Siria, di cui lo Stato Islamico è anche espressione, siano oggi quelle che "guidano" la guerra contro di esse. E' bene ricordare, infatti, come i miliziani dell'IS abbiano reclutato truppe tra le fila degli oppositori di al Asad, addestrati ed armati dai "Friends of Syria" occidentali, turchi e del Golfo, rafforzando così il proprio arsenale bellico come dimostrato dal centro di ricerca Conflict Armament Research. Una volta conquistata Raqqa in Siria e Mosul in Iraq, lo Stato Islamico ha ampliato ulteriormente il proprio arsenale con armi dell'esercito siriano e di quello iracheno, dunque russe e statunitensi.

Sembra paradossale, ma in fin dei conti non lo è, il fatto che si pongano oggi come risolutori della crisi quelle forze che hanno avuto ruolo determinante nel farla scoppiare: il disastro sociale e politico odierno è il frutto avvelenato dell'occupazione anglo-statunitense dell'Iraq nel 2003, della dissoluzione delle sue istituzioni pubbliche e delle politiche confessionali portate avanti prima dai dirigenti statunitensi a Baghdad e poi dai Paesi arabi del Golfo e dalla Turchia, che hanno cercato di imporsi come leader regionali mentre Washington era intenta ad affrontare altre crisi.

Mentre tutto sembra cambiare nella grande guerra allo Stato Islamico, molte, troppe sono le continuità con un passato di guerra e di politiche identitarie, confessionali e omicide. Senza voler sminuire alcune novità, la nuova guerra di Obama ricorda il vecchio adagio del Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi", leadership statunitense e influenza saudita comprese.

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna