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Non buttate le regioni

Paolo Pombeni - 15.10.2015
Italia delle Regioni

La riforma del Senato è stata approvata sebbene per il suo varo definitivo come legge costituzionale si debbano ancora attendere nuovi passaggi a Camera e Senato con un iter la cui conclusione è prevista fra marzo e aprile del prossimo anno. Tuttavia danno tutti per scontato che a questo punto saranno solo passaggi formali (anche se in politica non si può mai dire …) e dunque celebrano o criticano la riforma come un fatto compiuto.

Una delle perplessità più condivise riguarda la centralità delle regioni nel nuovo contesto. Si fa notare che si tratta di istituzioni squalificate da una serie di scandali, che esprimono una classe politica che viene presentata come non di prima grandezza, per non dire di peggio. Per questo si accoglie con favore la ri-centralizzazione di competenze che il nuovo assetto sembra favorire.

Si tratta di un tema che merita di essere sottratto alla cattiva stampa di cui gode, perché una articolazione dei poteri sul territorio è una modernizzazione del sistema di governo a cui non pare opportuno rinunciare. Anche uno stato di grande tradizione “centralista” come la Francia si è convertita al regionalismo e, per citare un altro esempio più controverso, la Gran Bretagna ha fatto della “devolution”, cioè del riconoscimento di poteri ampi a componenti storiche del suo “regno unito”, un qualcosa di più e di diverso rispetto alla sua tradizione storica di riconoscimento del “local government”, cioè del conferimento di alcuni compiti ad organi locali insediati sui territori.

Certamente il regionalismo italiano ha bisogno di qualche ripensamento. In parte la formazione delle nostre entità regionali è frutto di tradizioni storiche anche piuttosto evanescenti, in parte di pulsioni localistiche per godere di privilegi, soprattutto come possibilità di creare posti di sottogoverno. L’ordine del giorno approvato dal senato, temiamo per chiudere le dispute a buon mercato, che ipotizza una riduzione delle regioni esistenti con accorpamenti che non sono ancora fissati, ma che come vengono prospettati sono assai poco convincenti, non ci pare un gran passo avanti. E’ poco più che un appello al vento e nasce dal solito concetto, totalmente sbagliato, che unendo membra disperse si risparmia e si guadagna in efficienza.

I corpi politici non si possono inventare sulla carta. Quello che sta succedendo adesso in Medio Oriente, ma non solo, dovrebbe averci vaccinato dall’idea che basta disegnare entità politiche su una carta geografica per far nascere non diremo delle “nazioni”, ma anche semplicemente delle entità che riescono banalmente a “stare insieme”. Dovrebbe bastare per lasciar perdere l’idea che l’Italia possa essere suddivisa in cosiddette “macro aree”, come se le entità politiche non avessero bisogno di legittimarsi con un minimo di condivisione di storia e cultura comune.

Oggi la crisi dell’attuale sistema regionale deriva dal venir meno di una classe politica che si identifichi con esso. Quando negli anni Settanta furono finalmente varate le regioni a statuto ordinario, esse furono l’incubatore di classi dirigenti che non trovavano spazio nei grandi partiti nazionali e che puntavano ad usare quello strumento per una modernizzazione che a livello centrale non sembrava trovare spazi. I Bassetti, i Gorrieri, i Fanti, i Kessler, per buttar lì qualche nome erano “uomini di governo” che non avevano un ruolo a livello nazionale e che pensavano di poter usare (e in parte lo fecero) i nuovi poteri regionali per gestire quello “sviluppo” che si era rivelato tanto come una occasione di progresso quanto come una destabilizzazione di vecchi equilibri.

Anche lasciando da parte le varie deviazioni scandalistiche che hanno interessato in questi ultimi anni molti esponenti dei sistemi politici regionali e concedendo che stiamo parlando in quei casi di patologie perché non tutto è così, rimane la costatazione che le regioni e i grandi comuni non producono per lo più risorse umane per il governo della nazione, ma al più o onesti gestori di orizzonti limitati o cacicchi più o meno telegenici.

Per evitare questo destino l’unica soluzione è abolire o ridimensionare le regioni? Ovviamente nel momento in cui si è appena varata una seconda camera come luogo della loro rappresentanza ciò sarebbe insensato. Al contrario proprio questo nuovo fatto deve spingere le forze politiche, ma in senso più lato tutta la sua società civile ad uno scatto di reni per produrre quella classe politica all’altezza del mantenimento del ruolo di articolazione del governo del paese che è proprio delle regioni. E’ in quegli ambiti che dovrebbe nascere e si dovrebbe formare la nuova classe politica di cui abbiamo tanto bisogno.

Non c’è dubbio che si debba fare una grande opera di pulizia, perché troppa classe dirigente dei governi locali è di risulta, nasce da pateracchi interni ai partiti per sistemare persone con cui si ha qualche debito, ma che non si vuol portare ad un vero livello di responsabilità. Da lì arrivano gli assessori alla ricerca di facile notorietà con iniziative il cui fine è solo quello di “far parlare di sé”, o i politicanti per cui il potere è esibire lo status symbol di invitare qualcuno a pranzare a sbafo in un ristorante di gran lusso. Non è tutto così, ma quello che è così (e non è poco) finisce per essere ciò che dà il tono alla musica complessiva.

Piuttosto che impelagarsi in fantasiosi ridisegni delle regioni, sarebbe meglio che si cominciasse a lavorare da subito alla ricostruzione di un sistema regionalistico degno di questo nome. Dopo la riforma del senato è il compito urgente per dare un senso allo stesso passo avanti che si è fatto.