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18 maggio 2024
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Mercato unico digitale e frammentazione (2)

Patrizia Fariselli * - 05.09.2015
Google Tax

Come anticipato nel precedente articolo, nell’Unione Europea il contrasto tra frammentazione reale e mercato unico virtuale è evidente nel settore dell’economia digitale ed è rivelatore il caso della tassazione delle imprese americane che operano servizi digitali di rete (OTT) negli Stati membri.

In sostanza, imprese come Google, Apple, Amazon che hanno il loro quartier generale negli Stati Uniti (che sono un mercato unico), localizzano le loro filiali europee negli Stati che offrono loro trattamenti fiscali di favore (ad esempio Irlanda e Lussemburgo) e riconducono ad esse la formalizzazione dei contratti relativi alle attività che società locali svolgono nei singoli Stati europei. Recentemente, Apple è stata accusata dalla Procura di Milano di presunta evasione fiscale per non aver pagato all’Agenzia delle Entrate 879 milioni di Euro sulle vendite di Apple Italia destinate alla rete di distribuzione nazionale, sostenendo che la società residente in Italia è in grado di negoziare e decidere autonomamente i contratti e contestando che si tratti di un agente che opera per conto della società irlandese. Nel dicembre scorso il cancelliere Osborne ha manifestato l’intenzione di introdurre una tassa del 25% sugli utili generati nel Regno Unito dalle imprese che “deviano i profitti in altri Paesi con aliquote fiscali più basse”. La cosiddetta Google tax, tuttavia, non è così semplice da realizzare.

Innanzitutto c’è la difficoltà tecnica di calcolare i profitti nel business digitale, che si basa prevalentemente su risorse intangible e sull’intermediazione. Google fa profitti perché dispone di una formidabile piattaforma tecnologica, sulla quale convergono un crescente numero di applicazioni e servizi, dai quali Google ottiene informazioni sui loro utilizzatori, che poi riaggrega e vende ad acquirenti di pubblicità. Google ha un grande vantaggio nell’espandere il ventaglio dei propri business sia verticalmente che orizzontalmente nei settori più disparati, anche quando i servizi vengono offerti gratis (come quelli inclusi nella piattaforma Chrome), perché da ciascuno può trarre la manna dal cielo: i dati sugli utenti. Se i profitti sono i ricavi meno i costi, non è semplice quantificare quali ricavi sono associati a quali costi, per quanto ora che Google ha deciso di riorganizzare la sua galassia sotto l’ombrello della super-holding Alphabet potrà forse essere più facile isolare i progetti redditizi da quelli non redditizi. Il caso di Amazon è illuminante in proposito. Come spiegato in http://ben-evans.com/benedictevans/2014/9/4/why-amazon-has-no-profits-and-why-it-works, dal punto di vista contabile Amazon è divisa in tre segmenti (Media, Electronics & General Merchandise, Other – che include i servizi della piattaforma AWS), ma in realtà è organizzata in una pluralità di team separati, ciascuno relativamente autonomo, anche nel fissare i prezzi, e con diversi gradi di profittabilità. Nello stesso segmento, cioè, i risultati possono essere molto diversi. Inoltre, per una buona metà delle sue vendite Amazon non fissa un prezzo, ma trattiene un margine sui beni o servizi che trasferisce online da fornitore a utente che compensa la sua intermediazione, ma tecnicamente questo tipo di reddito non equivale a un profitto. Inoltre, ad ogni transazione corrispondono servizi collegati (logistici, e-payment, ecc.) che Amazon realizza sulla sua stessa piattaforma, che aumentano il valore totale dei beni che passano tramite Amazon.com ma poiché Amazon contabilizza come redditi solo i servizi che carica ai soggetti di cui vende i beni, il valore lordo delle transazioni è probabilmente il doppio di quello che viene registrato.

In secondo luogo, il trattamento fiscale delle imprese multinazionali è materia di accordi internazionali e attualmente l’OECD sta lavorando in questa direzione, ma il processo è lento e complesso e richiederà alcuni anni. In Italia le proposte di Google tax avanzate da alcuni parlamentari al governo sono state stracciate da Renzi, che ne ha scaricato su Bruxelles la competenza. L’Europa serve alternativamente come schermo per fare o per non fare. Pertanto, in mancanza di un indirizzo politico unitario, per il progetto DSM la Commissione Europea punta sull’obiettivo più realistico dell’armonizzazione dell’IVA, attualmente frammentata in una pluralità di regimi differenti, in modo da ottenere dalla tassazione indiretta un gettito inferiore ma meglio documentabile. Nel frattempo, il 1° gennaio 2015 è entrata in vigore in Europa la nuova direttiva sull’IVA sulla vendita online di servizi o prodotti digitali, che prevede il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto nel paese dell’acquirente, e non più in quello di chi vende. Ma per quanto si tratti di un obiettivo apparentemente tecnico, l’armonizzazione dell’IVA non ha fatto grandi passi avanti in Europa, finora.

Mentre, a legislazione vigente, la strada percosa a livello nazionale è quella di contrastare l’evasione fiscale, a livello europeo la Commissaria alla Concorrenza Margrethe Verstager segue la strada del contrasto agli aiuti di Stato. Posto che le imprese multinazionali possono legalmente verificare quale trattamento fiscale verrà loro riservato negli Stati in cui potrebbero trasferire la loro sede (tax ruling), la Commissaria sta investigando per capire se questa procedura non copra in realtà la negoziazione di condizioni speciali, configurando cioè l’ipotesi di aiuto di Stato. Pertanto nel dicembre scorso ha chiesto ai 28 Stati membri informazioni in merito ai rispettivi tax ruling, ma a giugno la richiesta è stata reiterata a 15 Stati (tra cui Germania, Francia, Austria, Italia, Spagna) perché “we are still missing several parts of this puzzle” per la mancanza di collaborazione da parte dei governi nazionali e delle imprese multinazionali a fornire le informazioni. Anche il Parlamento Europeo si è mosso e ha attivato una Commissione speciale presso la quale ha convocato le multinazionali sospettate di aver concluso accordi illegittimi con Stati membri EU. Poiché quasi nessuno si è presentato, il Parlamento ha pubblicato la black list delle multinazionali che hanno rifiutato di comparire, e Google e Amazon, oltre a McDonald, Ikea, Fiat Chrisler e HSBC sono nella lista.

In mancanza di OTT europei in grado di contendere quelli americani, l’Europa che punta al DSM è orientata a catturare la rendita fiscale che i monopoli americani evadono giocando sulla frammentazione del mercato europeo, ma nello stesso tempo non trova un accordo sull’integrazione effettiva del mercato europeo per la resistenza (diffusa) a rinunciare alla negoziazione diretta tra singoli Stati e OTT per catturare vantaggi differenziali dalla frammentazione. Per come stanno le cose, sembra che i vantaggi della frammentazione, come sono percepiti a livello dei singoli governi nazionali, superino i vantaggi dell’unificazione, come sono proclamati dalla burocrazia europea.

 

 

 

 

* Patrizia Fariselli è docente di Economia dell'innovazione presso l'Università di Bologna