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Lo spazio e il tempo del confronto nell'era della "politica veloce"

Luca Tentoni - 13.07.2019
Internet-politica

Mai, nella storia, le persone hanno avuto accesso ad una quantità di informazioni paragonabile a quella disponibile oggi, grazie ai mezzi di comunicazione di massa (in particolare Internet e specificamente i social network). In politica l'accelerazione è stata più marcata che altrove, perché fino a circa un decennio fa i partiti avevano una certa diffidenza nei confronti delle potenzialità della "rete". Anche cinque o sei anni fa, a ben pensarci, in Italia solo Grillo (e, in modo embrionale, Renzi) aveva scoperto internet come grande piazza virtuale dove aggregare consensi politici veri. Forse il momento iniziale di questo nuovo corso - quello che oggi viviamo - è stato caratterizzato dall'elezione del presidente della Repubblica nel 2013, quando consensi e dissensi nei confronti dei "papabili" si espressero in modo massiccio e forte (qualcuno giunse ad affermare che alcuni "grandi elettori" ne furono colpiti e in qualche modo influenzati). Negli Stati Uniti, invece, tutto iniziò con Obama. L'evoluzione nell'uso dei mezzi più moderni ha però portato presto ad un'esasperazione del linguaggio (Trump si esprime in modo molto più "diretto" – e brusco - di Obama, per dirne una). Ora la vita politica è "in diretta" (poco importa se spontanea o costruita sapientemente), in un flusso che coinvolge i fruitori dei messaggi e talvolta regala l'illusione (tramite i "like" o la possibilità di rispondere, anche in modo gravemente offensivo) che fra il Potere e il cittadino comune ci sia davvero un rapporto alla pari. Invece, i monologhi su Facebook sono molto più verticistici dei vecchi comizi (dove il rischio di essere colpiti da pomodori e uova marce non era mai del tutto escluso) perché un vero contraddittorio non c'è. Sono scomparse persino le mediazioni tradizionali: spesso le domande dei giornalisti sono sostituite da un microfono offerto al leader perché esterni a piacimento. Lo stesso ruolo dei giornalisti - specialmente quando fanno domande poco gradite o cercano di ristabilire la verità di fronte a patenti bugie dell'intervistato di turno - è spesso avvilito, esposto come un bersaglio al ludibrio dei "leoni del web", dei supporter che non hanno più alcun ritegno nel colpire (le stesse persone, in altre circostanze, dovendo mostrarsi e presentarsi in un luogo pubblico, sono di solito molto più continenti e rispettose). Sembra quasi che la domanda di libertà di informazione non sia stata soddisfatta aumentando la qualità (è accaduto solo in parte) ma soprattutto la quantità di informazioni e interazioni. Il tutto, da un lato ha reso difficile per i meno accorti distinguere il vero dal falso, perché costruire il verosimile è ormai molto facile; da un altro lato, l'illusione di poter trattare alla pari con persone del mondo della cultura, della scienza, della politica, dello sport, non ha innalzato la cultura media del fruitore dei social: nessuno è diventato chirurgo, allenatore della Nazionale di calcio, semiologo, esperto di istituzioni politiche comparate, ingegnere, economista o vulcanologo semplicemente interagendo con chi ha studiato per decenni - con riconoscimenti nazionali e internazionali - materie molto più complesse di quanto sembri al cittadino medio. Un famoso uomo politico, svariati anni fa, affermava che l'elettore è come un bambino di 10-11 anni, nemmeno il più bravo della classe. Questa considerazione sembra valere anche quando si ricorre compulsivamente a slogan "di pronto uso" per veicolare messaggi politici insieme complessi e talvolta insidiosi. Abbiamo tante informazioni, tante interazioni, tanti amici (molti dei quali virtuali), "tanto di tutto, tanto di niente, le parole di tanta gente" (come cantava Gabriella Ferri). I giornalisti che osano muovere critiche alla propria squadra di calcio o al partito vengono definiti "giornalai" (come se fare il giornalaio fosse un lavoro disonorevole). Un tempo, il dibattito sullo stato della democrazia, sui problemi della società, dell'economia, della politica erano oggetto di un'elaborazione e di una riflessione che richiedevano studio e pazienza, oltre ad una certa dose di umiltà (che serviva a dare lo stimolo per provare a imparare, a saperne di più). I partiti e i leader erano lontani, ma in certo modo anche vicini: i comunisti avevano le "cellule", tutti avevano le sezioni, i comizi, i dibattiti. Se si voleva colpire una persona bisognava avere il coraggio di avvicinarglisi e di tirargli un sasso, pagandone le conseguenze; oggi taluni - sui social, protetti dall'anonimato - augurano lo stupro e restano impuniti, sorretti da altri occasionali sodali "virtuali" o reali. Si discuteva, si rifletteva, ci si confrontava e ci si scontrava. Si partecipava anche dal basso, fisicamente, essendo presenti, guardando negli occhi gli interlocutori. Talvolta - come nei terribili anni Settanta - le parole lasciavano il posto alla violenza; oggi, per fortuna, questi accadimenti sono molto più rari. Per questo è un bene non lasciarsi prendere dalla "retrotopia": il passato felice, l'Eden non esisteva e non è il caso di volerlo per il nostro futuro. Però, in un contesto che ha bisogno di un governo collettivo, fatto dal buonsenso di tutti i singoli fruitori (il controllo sociale, che in presenza di un pubblico reale frena le intemperanze che i “social”, invece, non bloccano) e non da censure che restringerebbero lo spazio democratico finendo per colpire il buono che c'è nei nuovi mezzi di comunicazione, c'è anche un altro aspetto da non trascurare. Se il confronto sulla politica diventa uno scontro sui singoli atti o comportamenti (ogni giorno diverso, perché tutto scade, tutto si consuma in fretta), si restringe sempre più lo spazio per la riflessione, per lo sguardo rivolto verso il futuro, per la progettazione e l'elaborazione di un'idea di medio o lungo termine del Paese e dell'Europa della quale facciamo parte (non dal 1957: da sempre). Non che i partiti non cerchino qualche luogo di confronto, di elaborazione (le scuole di politica, per esempio) ma i dibattiti, gli incontri pubblici, i confronti fra esponenti politici e intellettuali passano in secondo piano (e si diradano un po', bisogna ammetterlo). In ogni caso, si tratta di cose che "non arrivano" ai più. Non è azzardato affermare che oggi tutti hanno un mondo di sapere a disposizione, ma forse non tutti hanno il tempo, la voglia o la capacità di fermarsi oltre le 140 o 280 battute, oltre i due o tre o cinque minuti di attenzione e di ascolto. Manca il futuro, forse, ma ancor prima il tempo e l’intenzione di concepirlo, di prendersi lo spazio e il respiro per ragionare e disegnarlo. O, almeno, di cogliere i contorni di ciò che ci aspetta, senza limitarsi a seguire compulsivamente i "trend topics" che durano poche ore. In questo contesto, chi riflette sulla politica, sulla democrazia, sulla società ha un compito più difficile che in passato, perché non può più contare sulla credibilità del ruolo e neppure su spazi e tribune (lontane dal collettivo “rumore di fondo”) dalle quali potersi esprimere. Ciò non vuol dire che chi analizza e studia le mutazioni sociali, politiche ed economiche debba arrendersi, smettere di far sentire la propria voce. È attraverso gli scritti, le testimonianze anche di testate "di nicchia" o "di minoranza" come Mentepolitica che questo compito può continuare a svolgersi, come in altri ambiti. In un momento nel quale c'è bisogno di riflettere per agire, anziché agire senza riflettere, l'assenza o la scarsa partecipazione degli intellettuali, dei divulgatori, è un "tradimento dei chierici" che rappresenta, forse, uno dei maggiori vulnus che possano colpire la nostra democrazia. Mussolini non entrò a Roma con le sue truppe raffazzonate facendo la rivoluzione: arrivò comodamente, in treno, dopo che il re gli aveva promesso di dargli la presidenza del Consiglio. Sarebbe bene che, senza smettere di far sentire la propria voce, ci si impegnasse a non cadere nell'abulia e nella rassegnazione. Non si possono di nuovo aprire le porte a qualcosa di terribile solo perché è più facile e comodo tirarsi fuori dalla mischia.