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L'Italia di Mattarella

Luca Tentoni * - 05.02.2015
Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano

Come il predecessore Giorgio Napolitano aveva auspicato nell'ultimo messaggio di fine anno dal Quirinale, il nuovo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non sembra voler adottare una linea di discontinuità, almeno per quanto concerne l'atteggiamento verso le riforme costituzionali e il cambiamento del sistema elettorale. Tuttavia, nel discorso d'insediamento del Capo dello Stato si è chiaramente avvertita la presenza di un doppio binario. Quando Mattarella richiama i due suoi immediati predecessori, traccia questo ideale percorso fatto di due istanze, ciascuna delle quali può prevalere in una determinata circostanza storica. Ciampi è stato più "arbitro" (esercitando il proprio ruolo nel rinvio delle leggi e nella "moral suasion", particolarmente incisiva nel caso della riforma elettorale per il Senato, nel 2005, quando si trattava di salvaguardare il carattere regionale della rappresentanza di Palazzo Madama), mentre a Napolitano è spettato un ruolo più attivo (forse, si potrebbe dire usando il parametro di Mattarella, perché "i giocatori" non lo hanno molto "aiutato con la loro correttezza") e soprattutto un più deciso impulso in direzione e in favore delle riforme costituzionali. La presidenza di Mattarella, insomma, come si accennava commentando proprio su "Mentepolitica" il discorso di fine anno di Napolitano, potrebbe essere caratterizzata non solo dalla fine dell'"eccezionalità" istituzionale, ma anche dall'arrivo al Quirinale di un Capo dello Stato che chiuda la fase convulsa e controversa della Seconda Repubblica né "picconando" (come fece Cossiga nella seconda parte del suo mandato), né restaurando una Prima Repubblica per la quale (al di là di qualche nostalgia riaffiorante in taluni ambienti) non sembra in vista alcun "Congresso di Vienna". Quel "ricucitore" che serve per riannodare i fili di un rapporto scomposto fra società e classe politica, fra sentire comune e vita istituzionale, è dunque stato individuato nel nuovo Presidente, seguendo il profilo che in qualche modo il suo predecessore aveva tracciato. Sebbene all'apparenza questo ragionamento possa far pensare che tutto era già scritto al momento dell'uscita di Napolitano dal Quirinale, la realtà è ben diversa. Alla decisione finale si è giunti quando Renzi ha compreso (in particolare, dopo le turbolenze sulla riforma elettorale) che scoprire il "fianco sinistro" della sua doppia maggioranza avrebbe avuto come conseguenza la comparsa di un candidato di area Pd che potesse porsi quale antagonista del proprio (chiunque fosse il prescelto di Palazzo Chigi), cosa che non sarebbe avvenuta scoprendo invece il "fianco destro" e di fatto trasformando l'intesa "del Nazareno" in un patto leonino per la parte più debole (la destra berlusconiana e, in certo modo, per i centristi che pure il "patto" aveva in qualche modo compressi e marginalizzati). L'abilità di Renzi, dunque, è stata quella di percepire che aveva di fronte una situazione complessa da gestire in modo non convenzionale. Se vogliamo, sostituendo la parola "catastrofi" con "fortune", potremmo riprendere in questo caso le parole di Carlo Emilio Gadda nel suo "Pasticciaccio": "le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia". Indirizzato il "vortice" nella direzione giusta, si è arrivati all'elezione di Sergio Mattarella: l'esito prefigurato e auspicato ma che fino a dieci giorni prima del voto sembrava solo il frutto di un pio desiderio. Detto perciò di come i percorsi della politica possano condurre da un luogo ad un altro passando per i più impervi viottoli, il risultato raggiunto è tuttavia quello voluto. Anzi, forse si può affermare che non v'era altra scelta possibile in grado di coincidere con l'intento "programmatico" del predecessore di Mattarella. Il nuovo eletto, infatti, pur differenziandosi da Napolitano per la caratterizzazione più arbitrale (il "binario Ciampi", appunto), segue però il filo del ragionamento sviluppato dal Quirinale nell'ultimo quinquennio. Al centro di tutto c'è la constatazione, contenuta nel discorso di Mattarella, che "la lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese (...)" al punto che ormai è necessario "scongiurare il rischio che la crisi intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione". Qui c'è quasi un ulteriore passo avanti rispetto alle riflessioni di Napolitano, un ideale completamento, quando si afferma, in parole povere, che la principale vittima della crisi economica (forse quella che rischia di avere minori speranze di guarigione) è il "patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale". Mattarella, avendo una formazione diversa da quella di Napolitano, declina con parole, accenti e argomentazioni differenti quello che tuttavia è il lascito programmatico e ideale del suo predecessore, ma lo integra. Non parla solo, infatti, delle riforme istituzionali che rimette all'apprezzamento delle Camere e neppure si limita (come farebbe, appunto, lo "scolorito Presidente" che taluni speravano di veder ascendere al Colle) a "generiche esortazioni a guardare al futuro" ma "la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana". L'adeguamento della Carta Repubblicana, dunque, è necessario, ma fondamentale è la riscoperta di valori e principi fondamentali contenuti nella Prima Parte della Costituzione. Questa "seconda" riforma spetta alle "formazioni sociali" e ai cittadini: "condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, perché (...) la democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente". La riforma istituzionale, dunque, diventa uno dei mezzi per rafforzare il processo democratico, ma per "ricucire" lo strappo fra "paese legale" e "paese reale" occorre il verificarsi di altre condizioni, legate al rispetto (anche nella "cucina politica" quotidiana, come per esempio evitando l'abuso della decretazione d'urgenza) di una Costituzione sconosciuta alla gran parte degli italiani, la quale, essendo stata definita a più riprese obsoleta e inefficiente, ha finito per essere considerata inutile anche nella sua parte più preziosa, quella dei principi e dei diritti inalienabili. Non basta dunque aggiornare le regole, ma "vivere" quelle esistenti che non sono oggetto di revisione: "la garanzia più forte della nostra Costituzione consiste nella sua applicazione, nel viverla giorno per giorno". Il lungo elenco di diritti (allo studio, al lavoro, alla cultura, alla difesa dell'ambiente, alla pace, alla tutela dei malati, alla giustizia in tempi rapidi, al pluralismo dell'informazione, alla protezione della donna, alla famiglia) contiene anche alcuni punti particolarmente rilevanti. Fra i diritti, infatti, spunta il dovere di ciascuno "di concorrere, con lealtà, alle spese delle comunità nazionale"; superficialmente può sembrare un segnale politico a qualcuno, ma è il costituzionalista che parla. Dunque, questo dovere "infilato" fra i diritti è in realtà il diritto ad avere uno Stato funzionante e un prelievo fiscale equo perché sostenuto dal concorso pieno e onesto da parte dei contribuenti. Così come l'omaggio alla Resistenza, che nei primi anni della Repubblica era doveroso e a un certo punto scontato (se si eccettua la felice parentesi del settennato di Pertini e la ripresa - in un quadro però di concordia nazionale e di spirito patriottico - voluta da Ciampi) torna come esempio di un sacrificio collettivo per la libertà. Libertà che, nel discorso di Mattarella, si va prima a declinare come "pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva" (quindi sul piano del "pubblico" e del "privato" di ciascuno) e poi nella necessità di "affermare e diffondere un senso forte della legalità". Di qui, la lotta alla mafia e alla corruzione, due mali che negano le libertà dei cittadini e l'azione positiva dello Stato per il bene comune. Lotta che si deve estendere ai fenomeni come il terrorismo internazionale e alle crisi umanitarie e alle guerre di fronte alle quali il Paese non può restare indifferente. Il primo passo importante della nuova Presidenza, dunque, sta in una "riforma più avanzata" rispetto a quelle - pur importanti, se efficaci - della Seconda Parte della nostra Carta Fondamentale. Quella riforma è il recupero dell'idem sentire repubblicano: "per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni (...) questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale (...) che si senta davvero comunità". In altre parole, quella che qualcuno, un po' imprudentemente, chiama già la Terza Repubblica di Mattarella, è in realtà la tensione verso un Paese che, nel diventare più cosciente dei suoi diritti (e nel riuscire a vederli rispettati senza doverli elemosinare o contrattare) sia soprattutto più pronto a spendersi nel dovere di una solidarietà e di un impegno civile al servizio della collettività e non di certe "piccole patrie" che, per convenienza ed egoismo (aggiungiamo noi, anche se il senso del discorso di Mattarella è chiaro) possono compromettere la nostra unità. Un'unità che (non solo sul piano territoriale, ma anche su quello sociale, economico e politico) rischia di essere "difficile, fragile, lontana".

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali