Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Le spine nel fianco di Giorgia Meloni

Paolo Pombeni - 18.01.2023
Salvini e Meloni

Ci sono stati molti commenti per quel “non solo” lasciato cadere in una comunicazione della premier quando si lamentava dei bastoni fra le ruote posti dalle opposizioni. Una specie di “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Tutti hanno subito capito che si riferiva tanto alla Lega quanto a Forza Italia, anzi più probabilmente ai gruppi dirigenti dei due partiti suoi alleati a cui ha anche concesso di esprimere i due vicepresidenti del suo esecutivo.

Da questo punto di vista le posizioni sono differenti. Mentre Taiani si barcamena per non scontentare Berlusconi e i suoi fidi, ma in sostanza fa squadra con Meloni, Salvini si profonde in attestazioni di fedeltà verso la premier, ma lavora costantemente ad indebolirne la leadership cercando di accreditarsi come il vero motore occulto del governo. Le ragioni di questi comportamenti sono facilmente inquadrabili nelle dinamiche di una coalizione in cui esiste un partito di gran lunga maggiore che si è associato due partiti decisamente minori. Basterebbe rileggersi la storia delle coalizioni messe in piedi dalla DC nella lunga fase che arriva fino al termine degli anni Settanta del secolo scorso per capire che è una vecchia storia che si ripete. Ma così è stato poi anche per vari governi di coalizione intorno al PDS-DS-PD.

Lo schema è abbastanza semplice. Da un lato il partito maggiore può quanto meno ambire ad essere il “partito della nazione”, cioè ad operare come sede in cui si trova, più o meno nell’ottica di un interesse vasto (generale sarebbe pretendere troppo), un equilibrio fra le varie esigenze che emergono dal paese. A questo punto i partiti minori sono però spinti a farsi i sindacalisti o i lobbisti, scegliete voi, di questa o quella categoria a cui offrono una tutela specifica che non terrà conto dell’interesse più vasto del paese sicché le invogliano a fidarsi di loro anziché del partito maggiore.

Se non si comportassero in questo modo i partiti minori si ridurrebbero ad un pugno di fan della storia specifica di ciascun gruppo politico, ma non riuscirebbero a pesare e soprattutto vedrebbero progressivamente assottigliarsi il loro consenso. Questo è quanto sta accadendo a Forza Italia e alla Lega.

I due casi non sono affatto eguali, tranne che per un aspetto: entrambi sono partiti che stanno scivolando sul viale del tramonto pur essendo state un tempo forze egemoni. Forza Italia da tempo non è più il partito della riscossa del moderatismo contro l’avvento al potere della sinistra: in parte perché il suo padre-padrone ha esaurito la sua spinta propulsiva (per usare una frase applicata a ben più importanti eventi), in parte perché la paura di un avvento al potere della sinistra si è sgonfiata e per quel tanto che essa rimane FdI sembra più attrezzata per contrastarla.

La Lega di Salvini è un partito che è esploso perché si era messo nelle mani di un “salvatore” che poi si è montato la testa, illudendosi di poter trasformare il populismo identitario del Nord nello strumento base di un populismo demagogico nazionale che non regge perché costituisce una miscela di componenti diverse e incompatibili fra loro. La fortuna iniziale della proposta leghista era stata nella prospettiva di smantellare uno stato nazionale che era rappresentato in un largo sentire popolare come la palla al piede per il mantenimento delle fortune del Nord ricco e sviluppato. La trasposizione a livello nazionale di questo desiderio di smantellamento è funzionata per poco, cioè per quel tanto che ha retto la leggenda per cui ciascuno facendo per conto suo avrebbe raggiunto meravigliosi traguardi. È bastata una crisi economica che ha mostrato quanto in circostanze del genere lo smantellamento del sistema centrale significava perdere un mezzo di tutela, per ridimensionare presso le nuove platee le aspirazioni “nazionali” del salvinismo (ma anche per mettere in crisi quel mito nelle stesse piazzeforti del Nord).

Per questo complesso di cause Meloni si trova a guidare una coalizione dove i minori sono alla disperata ricerca di “darsi un tono” accentuando tutto quello che può servire allo scopo. Ne deriva che mettono in crisi un’azione di governo che essendo costretta a fare i conti con un quadro economico-sociale problematico deve contemperare più interessi: sia sul piano interno, evitando per quanto possibile le tensioni fra le varie componenti del paese, sia sul piano internazionale cercando di mantenere le connessioni che possono fare da garanzia per la sua tenuta nel tempo.

Sono ragioni che né FI, né la Lega comprendono, o meglio: magari le capiscono anche, almeno parzialmente, ma non possono adeguarsi ad esse per non perdere i consensi elettorali che restano loro e che sempre più sono legati a motivi di natura corporativa. Ne deriva che continueranno nella logica di affermare le rispettive peculiarità settoriali e di agire come una spina nel fianco della premier e del suo partito (tanto più con le elezioni regionali alle porte e con le europee fra un anno e mezzo).

Questo farà cadere l’attuale governo? Come sempre ciò potrebbe accadere solo se ci fosse una alternativa che possa risultare favorevole per il mantenimento del potere da parte di FdI. Siccome al momento pare difficile, a meno che un acuirsi della crisi non costringa a tornare alla logica di grandi coalizioni, si andrà avanti come adesso: con i partiti minori che continueranno a dare fastidio e con la Meloni che si lamenterà delle spine nel fianco, ma sarà costretta a tenersele per non compromettere la sua permanenza al potere.