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Le coalizioni impossibili?

Paolo Pombeni - 19.07.2017
Matteo Renzi

Al di là delle cortine fumogene delle solite polemiche estive, la questione di fondo che con ogni probabilità si prospetterà dopo le prossime elezioni politiche, indipendentemente da quando avranno luogo, sarà quella delle coalizioni. Nella situazione che attualmente ci prospettano i sondaggi non c’è un singolo partito in grado di imporsi da solo come vincitore: nemmeno se si conservasse l’opzione dell’attuale premio di maggioranza che il moncone di legge elettorale sopravvissuto al vaglio della Consulta assegna al partito che raggiunge il 40% dei voti. A meno di prevedere clamorosi terremoti elettorati che sfuggono ai sismografi politici, attualmente secondo tutti i sondaggi al più il partito meglio piazzato raggiunge a stento il 30% dei consensi.

Si deve dunque ipotizzare che si passi a considerare la soluzione di coalizioni di governo, sia che ciò sia favorito da una, ci pare improbabile, nuova legge elettorale, sia che ciò sia quanto si renderà necessario dopo aver fatto la conta proporzionale dei consensi raccolti dalle varie liste. Al momento l’unica coalizione che ha qualche prospettiva di realizzarsi è quella di centrodestra. Non tanto per le capacità federative di Berlusconi, quanto per il fatto che è l’unico campo in cui la voglia di sconfiggere gli avversari e di ritornare al potere è più forte degli odi e dei risentimenti reciproci che albergano al suo interno.

Il centrodestra è ancora formato da un elettorato che ha grande voglia di rivincita contro tutti, perché considera di essere stato ingiustamente escluso dal potere lungo tutta la prima repubblica ed è ancora scottato dalle sconfitte che ha registrato nella seconda. Questo gli è sufficiente a livello elettorale per trovare le ragioni pratiche per costruire la coalizione e per essere sicuro che alla fine i suoi elettori lo voteranno senza far troppo caso alle baruffe a cui hanno assistito negli anni recenti. Per di più la sensazione che va diffondendosi di essere l’unico campo con buone probabilità di vincere galvanizza il suo elettorato e forse sarà in grado di recuperare anche un po’ di astensione.

La concorrenza al suo progetto non è messa molto bene. I Cinque Stelle sono ancora fermi alla tesi della orgogliosa solitudine, nella convinzione che se fossero il primo partito potrebbero poi con relativa facilità far leva sullo spaesamento dei nuovi parlamentari per raccattare un po’ di voti che li mettano in condizione di varare inizialmente una qualche maggioranza di governo. Poi contano evidentemente sulla forza d’inerzia e sulla possibilità di sfruttare gli odi reciproci fra destra e sinistra, puntando ora sugli uni ora sugli altri. Sarebbe una tattica molto arrischiata, ma sarebbe bene essere cauti a giudicarla impossibile. Se la situazione del paese non si risolleva in maniera decisiva, temiamo che ci sarà più di un interesse a tentare l’avventura di affidarsi ai pentastellati.

La componente che è messa peggio è quella della sinistra. Erede di una vittoria elettorale per quanto di misura, unica forza ad avere partorito, sia pure con grande travaglio, una leadership di tipo nuovo, essa è ormai caduta vittima del suo eterno vizio dei processi ideologici. In verità al momento più che di questioni ideologiche, si dibatte di pregiudizi e di battute, ma in tempi di magra ci si adatta a tutto.

Come ormai è noto la questione è che il campo della sinistra è spaccato fra un PD al momento nelle mani di Renzi (per quanto forse meno saldamente di quanto si dica) e un arcipelago di sigle che si collocano alla sua sinistra e che sono tenute insieme solo dalla preclusione (talora un vero e proprio odio) contro l’attuale segretario del PD. Questo rende molto difficile il varo di una coalizione, perché non la si può fondare sulle scomuniche reciproche, alle quali del resto nessuno vuole rinunciare. Le speranze che tutto si potesse risolvere con un cambiamento nelle due chiesuole si è rivelato per quello che era, cioè una pura illusione. Immaginarsi che il PD esca dal renzismo e abbandoni il suo leader attuale o che il campo alla sua sinistra possa federarsi mettendo da parte l’antirenzismo è velleitario: ammesso che lo si volesse fare, richiederebbe tempo per essere realizzato e ancor più tempo per cancellare la memoria di quel che è stato. Esattamente quella risorsa che oggi non è disponibile.

Dunque tutto fa pensare che ci avviamo verso un parlamento ingovernabile. Soprattutto tenendo conto che il sistema della fiducia prevede il voto omogeneo di due Camere, pensare che si possano trovare maggioranze, anche arrischiate, che possano reggere quel doppio confronto appare piuttosto incredibile.

Eppure siamo di fonte al classico gatto che si morde la coda. Il quadro che abbiamo descritto è più o meno noto a tutti, ma in questa fase ben pochi si attrezzano per non finirne schiacciati. Se non è solo fumo, l’unico campo che sta facendo qualcosa è quello del centrodestra, per le ragioni che abbiamo già esposto: sa che calcare la mano in questa fase sulle prospettive di vittoria mantiene mobilitato il proprio elettorato e non impedisce più di tanto un po’ di populismo declinato secondo le diverse ortodossie. I Cinque Stelle al momento continuano nella loro tattica di lasciar perdere il confronto coi partiti puntando invece ad accreditarsi presso le più diverse corporazioni sociali, non avendo problema a solleticare le aspettative di questo o di quello anche se la logica direbbe che le une sono in contrasto con le altre.

A sinistra nessuno è disposto a tentare di cambiare registro: non Renzi e men che meno gli antirenziani. E fino a che le cose restano così le possibilità di quel campo di tornare al centro del sistema di governabilità non saranno molto alte.