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04 maggio 2024
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La politica populistica di Trump e la lotta religiosa per il controllo del sogno americano

Alessandro Micocci * - 16.12.2020
Gentile La democrazia di Dio

Nelle recenti elezioni presidenziali gli Stati Uniti sembrano essere giunti, nell’opinione dei mass media, a un punto di radicale rottura del paese in due fazioni, schierate in un, seppur banale e riduttivo, “o con Trump o contro”. Se da una parte questa divaricazione sociale, culturale e politica è stata incentivata dal populismo e dalla dialettica del miliardario repubblicano, dall’altra la netta estremizzazione delle posizioni tra democratici e repubblicani può leggersi in una chiave evoluzionista, la quale può far luce su una strategia politica fredda e programmata: non dunque, come la frenetica attività dei media ritiene, a una deriva populistica di Donald Trump, di concerto con il suo establishment.

A questo scopo risulta interessante riprendere un libro di Emilio Gentile, “La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore” (Bari, Laterza, 2008), che pur focalizzandosi sulla politica portata avanti dalla presidenza di George W. Bush figlio, analizza un particolare aspetto della politica USA che in questo periodo storico assume un connotato molto più aspro e deciso.

Gentile si concentra sulla forte connotazione religiosa data alla figura del presidente degli Stati Uniti da Bush, riuscendo in tal modo a rendere indiscutibili e immuni da ogni critica razionale le sue mosse politiche, interne ed estere. La forte commozione suscitata dall’attentato dell’11 settembre 2001 accrebbe enormemente la popolarità di un presidente che soffiava sulla “religione civile”, ossia il culto religioso per la nazione espresso dagli americani, per imporre la propria visione politica e culturale. In particolare, sembra decisamente attuale il focus sulla polarizzazione delle forze repubblicane verso le rivendicazioni dei bianchi evangelici, non direttamente legati alla Chiesa protestante o cattolica. Questa importante fetta di elettorato si è incrementata numericamente dagli inizi del Duemila: di pari passo con il suo accrescimento demografico è aumentata la forza e il condizionamento che tale forza sociale e culturale esercita sulle amministrazioni. I bianchi evangelici hanno costituito il nerbo dei fedelissimi “fanatici” di Trump, e lo sostengono tuttora. L’interesse odierno che rivestono le argomentazioni di Gentile sta nel cospicuo aumento di politici repubblicani che simpatizzano con l’estrema destra religiosa.

Il processo di netta divisione tra varie anime dell’America non è che un nuovo, più deciso ed eclatante, tentativo delle forze della destra religiosa USA di impossessarsi del potere al fine di operare la propria “crociata” contro chi ha corrotto l’anima pura degli USA, forgiata dal credo messianico dei primi puritani giunti nel Nuovo Mondo: gli omosessuali, gli individualisti, i costumi sessuali disinibiti, l’aborto, la secolarizzazione dei costumi, la separazione tra Stato e Chiesa, e l’etnicizzazione della società americana. Questa corrente di opinione è stata fonte di analisi fin dalla fine degli anni Ottanta, quando si cominciò ad abbozzare la teoria di una “guerra culturale”, secondo la definizione del sociologo James D. Hunter, in atto negli Stati Uniti: conflitto netto tra la secolarizzazione dei costumi e i conservatori religiosi più estremi e tradizionalisti. I cristiani tradizionalisti e gli evangelici conservatori ritenevano, infatti, che ci fosse un nemico invisibile dietro la degenerazione morale degli Stati Uniti. Era una lotta tra conservatori e liberali, in merito a una diversa concezione di spiritualità. I repubblicani hanno sostenuto in varie occasioni queste forze, a partire da Nixon, per arrivare alle presidenze Reagan e Bush senior. Ma Gentile sottolinea come è con Bush figlio che più forte si è percepita la strategia di creare un fronte di fedeli fanatici, devoti alla figura profetica del presidente, vero e proprio pontefice della religione civile americana. In particolare, ciò che aveva destato preoccupazione era stato il crescente culto della figura del presidente Bush, che aveva calcato i toni sul diretto contatto tra volere di Dio e decisioni personali del presidente. Bush era considerato da chi lo sosteneva guidato da Dio stesso e, dunque, incontestabile. Ciò servì a Bush non solo per giustificare le sue politiche militariste verso il Medio Oriente, ma anche la politica interna, improntata verso il favoreggiamento della destra religiosa. Se agli inizi del 2000 la presidenza Bush fu contestata, soprattutto nel suo secondo mandato, e il suo progetto di culto personale fallì, non terminò di certo la polarizzazione della società americana e i tentativi della destra religiosa di prendere il sopravvento, tramite il partito repubblicano, e imporre la propria personale visione culturale e sociale.

Trump ha dunque semplicemente cercato di inserirsi in questa linea di profeti repubblicani cambiando la dialettica politica, soffiando sullo spirito di crociata presente nella sempre più ampia fetta di votanti repubblicani costituita da evangelici bianchi e, infine, sfruttando ogni possibile mezzo, dalle teorie complottiste di QAnon alla questione razziale, alla gestione della pandemia di Covid-19, per acuire il senso di divisione interno negli Stati Uniti e sfruttare la conseguente rabbia popolare come veicolo di legittimazione, politica e religiosa.

Nonostante la politica di Bush non abbia mai raggiunto tali livelli di netto favoreggiamento degli evangelici bianchi egli è stato definito da due studiosi, il teologo Robert Jewett e il filosofo John Schelton Lawrence, come esponente del “nazionalismo zelota”. Tale espressione della religione civile americana è caratterizzata da: mito della cospirazione dei malvagi – facilmente identificabili in nemici esterni, come i terroristi, e nemici interni, come chiunque faccia parte dell’establishment democratico, per tornare agli argomenti di Trump e del complottismo -, demonizzazione dei nemici, mistica della violenza, ossessione della vittoria – che può essere esemplificata dalla decisa presa di posizione di Trump alle elezioni, culminata nella percezione dei suoi sostenitori di essere stati derubati ingiustamente della vittoria elettorale – e, infine, culto dei simboli nazionali. Non sorprende, dunque, se la percezione che hanno fornito le ultime elezioni americane sia quello di una guerra culturale su due forme radicalmente divergenti di concepire la “democrazia di Dio”.

Esattamente come Bush prima di lui, seppur con un linguaggio più populista e volgare, Trump ha fornito una serie di precetti morali, tutti a detrimento dei suoi avversari politici, offerti come esca per le mire della destra religiosa americana. Si potrebbe azzardare, con tutti i benefici del dubbio, che il nuovo obiettivo politico della destra religiosa, impersonata dal culto per il presidente di turno – morto un Trump se ne fa un altro – sia quello di risolvere l’annoso problema della mai digerita separazione tra Stato e Chiesa con un nuovo culto. Quest’ultimo unirà lo Stato, ossia il partito repubblicano, e la Chiesa, intesa però non come la secolare istituzione protestante o cattolica, ma come l’immensa congerie degli evangelici bianchi conservatori, dei latinos timorosi del “socialismo democratico” - secondo la retorica trumpiana –  e dei complottisti, i quali spesso fanno parte del primo gruppo sopracitato. Tutto in nome del volere del Dio americano.

 

 

 

 

* Dottorando presso l’università di Genova