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27 aprile 2024
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Istantanea sulla riforma costituzionale (prima parte)

Fulvio Cortese * - 01.06.2016
La Costituzione

Sono già molti gli intellettuali e i giuristi “schieratisi” a favore o contro la riforma costituzionale promossa dal Governo e definitivamente approvata dal Parlamento il 12 aprile. E si moltiplicano, di conseguenza, i manifesti e gli appelli, vuoi per il SI, vuoi per il NO, in attesa che il voto referendario dell’autunno dichiari un vincitore.

Prima che lo scontro si faccia ancor più acceso, però, può essere opportuno fotografare per un attimo i termini del dibattito, almeno per quanto si è sviluppato finora: perché sarebbe auspicabile che gli elettori si facessero una propria e consapevole idea di come orientarsi; e perché sarebbe altrettanto sperabile che questo importante momento collettivo di riflessione e di decisione non fosse troppo condizionato dalla logica dei nomi e dei posizionamenti personali o di gruppo, come se si trattasse di stare dalla parte di qualcuno anziché di optare per una scelta capace di orientare il futuro della comunità (tutta) alla quale apparteniamo. Lasciamo, dunque, per un momento, la “guerra dei topi e delle rane” (chi non ricorda la Batracomiomachia?), e non abbandoniamoci all’idea che essa debba per forza essere conclusa – come nel famoso poema greco – dall’intervento implacabile delle feroci chele dei “granchi”: il voto, certo, è un fatto di volontà, ed è determinante; ma a settant’anni dalla nascita della Repubblica non si può continuare a pensare che gli italiani siano invariabilmente degli applicatori incoscienti di sensazioni veicolate da chi può sembrare solo più forte o solo più intelligente.

Cerchiamo, allora, di mettere un po’ d’ordine, e liberiamoci subito degli aspetti che sono generalmente salutati con favore: l’introduzione esplicita di limiti materiali alla decretazione d’urgenza; la fissazione di tempi certi per l’esame parlamentare dei ddl governativi; la modifica del quorum necessario alla validità del referendum abrogativo; l’abolizione del CNEL; l’ampliamento delle ipotesi in cui le Regioni ordinarie possono attivare una specifica procedura (quella dell’art. 116 della Costituzione) per godere di una maggiore autonomia; la previsione che, dei giudici costituzionali di estrazione parlamentare, due provengano dalla camera rappresentativa degli interessi territoriali. Si potrebbero aggiungere anche l’abolizione delle Province e la riduzione del numero dei parlamentari, ma si tratta – ad uno sguardo che voglia essere davvero onesto – di due punti tanto mediaticamente ragguardevoli quanto concretamente “nulli”: la necessità di altri “enti di area vasta”, nella riforma, è data quasi per scontata; e non è detto che, in forza del solo taglio quantitativo, le spese del nuovo Senato siano inferiori, anche perché dovrà dotarsi di tutti gli strumenti utili per svolgere attività sostanzialmente inedite (e importanti: come, ad esempio, la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni).

Ciò detto, affrontiamo il nodo più complesso. Quasi tutti gli interpreti, infatti, valutano come più che opportune le due grandi finalità dell’intervento modificativo: razionalizzare il sistema parlamentare; tornare sull’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni. Sono obiettivi, del resto, che da decenni formano oggetto di attenzione costante: quanto al primo, si può notare che era caro già ai Padri Costituenti, sin dalle prime battute dei loro lavori; sul secondo, invece, c’è poco da dire, poiché le peripezie più recenti dei rapporti tra “centro” e “periferia” sono abbastanza conosciute. Va aggiunto, poi, che, sempre da molto tempo, il modo per provare a fronteggiare i due profili è consistito, per la grande maggioranza degli studiosi, nel collegarli espressamente: ossia, legare le sorti dell’azione di governo al controllo di una sola camera (imboccando così la via di un sostanziale monocameralismo) e trasformare l’altra in una sede rappresentativa degli interessi delle autonomie (in una sorta, come si è detto, di trade off tra competenze e partecipazione: se è difficile individuare con certezza i confini di ciò che spetta allo Stato e di ciò che spetta, viceversa, alle Regioni, allora si può cercare di portare le seconde nel cuore del primo).

Dove nascono, allora, i distinguo? Per lo più, i fautori del NO contestano le specifiche modalità di realizzazione di questo disegno: segnalano, ad esempio, che la composizione del nuovo Senato non garantisce automaticamente la rappresentatività degli interessi territoriali tout court, in quanto i suoi nuovi membri, scelti dai consigli regionali, potrebbero tendere naturalmente a replicare anche al “centro” le articolazioni politiche di matrice nazionale, dimenticando le istanze locali; evidenziano che, comunque, il nuovo Senato si troverebbe di fronte all’alternativa di pesare troppo poco (la Camera, infatti, con poche eccezioni, può sempre superare il suo parere) o di pesare troppo (potrebbe, cioè, accendersi una forte conflittualità, interna al Parlamento, sulla specifica procedura da seguire a seconda della concreta riconducibilità della legge da approvare ai casi in cui anche il Senato deve esprimersi); sottolineano, più in generale, che è il principio autonomistico dell’art. 5 della Costituzione a subire una battuta d’arresto, visto che, per effetto dell’introduzione della clausola di  supremazia dell’interesse nazionale e di un esplicito spostamento verso l’altro delle materie in cui le Regioni possono legiferare, le comunità territoriali si vedrebbero private di quel ruolo positivo che si era cercato di promuovere anche nella riforma del 2001 e che era entrato a far parte, per così dire, di un patrimonio costituzionale non più rinunciabile sin dagli anni Settanta del Secolo scorso.

I fautori del SI, invece, considerano tali elementi come un fattore di potenziale forza: il primo problema potrebbe non presentarsi in alcun modo, e forse, anzi, si potrebbe superare espressamente anche nei futuri regolamenti parlamentari, disciplinando in quella sede le modalità di raggruppamento e di voto dei nuovi senatori; in questa prospettiva, anche il secondo problema non andrebbe sopravvalutato, poiché la finalità complessiva di razionalizzare i processi normativi del “centro” non dovrebbe essere disgiunta da una configurazione, per l’appunto, flessibile dei rapporti tra le due camere, suscettibile come tale di assecondare, e moderare, la variabilità intrinseca di un organo (il nuovo Senato), che nasce per essere sempre e costantemente in trasformazione (a seconda della durata in carica dei consiglieri regionali o dei sindaci che verrebbero a comporlo); anche la questione valoriale sulle autonomie, infine, non potrebbe essere considerata in termini così netti, sia per il fatto che il mutamento di quel patrimonio costituzionale si sarebbe già affermato negli ultimi anni, specie con l’avallo della “legislazione della crisi” da parte della Corte costituzionale, sia perché la positiva e previa acquisizione di quella medesima concezione dell’autonomia non sarebbe mai stata definita, finora, e con una simile univocità, neppure dai Costituenti, né, tanto meno, potrebbe invocarsene una lettura soltanto “antagonistica” rispetto alle esigenze del “centro” (cui si è sempre voluto affidare un ruolo di “regia” degli interessi repubblicani).

A fronte di questi argomenti, presi per ciò che sono (e, come si diceva in premessa, non per ciò che rappresentano nell’accademia o nella società partitica italiane…), si può semplicemente dire che gli elettori possono scegliere anche positivamente, senza il timore di violare alcun principio supremo dell’ordinamento costituzionale.

 

 

 

 

* Professore Ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università di Trento. La seconda parte dell'articolo verrà pubblicata il 4 giugno.