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04 maggio 2024
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Il Regno Unito è salvo: il NO degli scozzesi all'indipendenza

Giulia Guazzaloca - 20.09.2014
Scotland votes NO

Il Regno Unito è salvo

 

«Il popolo della Scozia ha scelto l’unità», ha commentato soddisfatto Alistair Darling, presidente del comitato «Better Toghether»; e in molti, non solo in Gran Bretagna, possono tirare un sospiro di sollievo. Con un’affluenza altissima, oltre l’85% degli aventi diritto, il risultato del referendum è stato netto: il 55% degli scozzesi ha optato per il mantenimento dell’unione, per non interrompere una storia iniziata oltre tre secoli fa.

Si prevedeva un duello all’ultimo voto, dopo la rimonta sorprendente degli indipendentisti dello Scottish National Party guidati da Alex Salmond, ma alla fine la vittoria del «no» si è imposta con un distacco di dieci punti percentuali. Fra le grandi città solo Glasgow, l’area metropolitana più popolosa, si è schierata a favore l’indipendenza con il 53,5% di «sì». In attesa che i dati elettorali vengano scorporati e analizzati, si può ritenere che la vittoria degli unionisti sia dipesa tanto dai timori degli scozzesi per il «salto nel buio» che avrebbe comportato l’indipendenza, quanto dall’agguerrita, a tratti minacciosa, campagna del potente schieramento anti-secessione. Quest’ultimo, sostenuto anche dalle grandi istituzioni internazionali e dai leader dei paesi europei, raccoglieva infatti i tre maggiori partiti, banche, colossi industriali, magnati della stampa; persino la regina aveva lanciato nei giorni scorsi un appello ufficioso agli scozzesi invitandoli a «riflettere attentamente» sul loro futuro. E il premier Cameron aveva detto chiaramente che in caso di separazione quello con la Scozia sarebbe stato un «divorzio doloroso e per sempre».

 

Il nazionalismo scozzese tra interessi economici e antiche passioni

 

È stata una lunga e appassionante campagna elettorale, dove tanti elementi, nuovi e vecchi, si sono intrecciati. Il nazionalismo scozzese viene infatti da molto lontano (anche senza risalire fino alle guerre tra Scozia e Inghilterra del XIV secolo) e da quando, nel 1707, il Regno di Scozia cessò di esistere esso ha continuato a nutrirsi di un forte e orgoglioso sentimento identitario. Sentimento che lo Scottish National Party, nato nel 1934, ha saputo far crescere costruendosi, dagli anni ’70 in poi, un solido bacino di consenso non assimilabile ad un estemporaneo atteggiamento di protesta. Entusiasmi, passioni – non ultime quelle sportive visto che soprattutto il calcio ha molto contribuito a rafforzare l’identità degli scozzesi e l’antagonismo con Londra – ma anche ostilità, paure e rivendicazioni hanno dunque segnato una storia, quella della Scozia contemporanea, che due giorni fa avrebbe potuto conoscere una svolta epocale: tale non solo per scozzesi e britannici, ma per l’Europa tutta.

Ma la battaglia dei secessionisti non ha fatto leva solo sul fervore patriottico degli scozzesi, sul tifo calcistico o sulle antiche glorie del paese. Ovviamente sono entrati in gioco potenti interessi economici e politici: finanza, tassazione, risorse petrolifere, questioni militari (se indipendente, la Scozia si sarebbe dichiarata «Stato denuclearizzato»), rapporti di forza tra i poteri locali. Salmond, che dinanzi all’imponente mobilitazione del fronte «Better together» ha spesso alzato i toni e respinto come «intimidazioni e bullismo» le mosse del governo centrale, ha puntato molte delle sue carte proprio sulle questioni economiche. Non si è mai stancato di dire che la Scozia vanta «un Pil pro capite più alto di Francia, Giappone e Gran Bretagna» e il 60% delle riserve di petrolio e gas d’Europa; ha garantito agli scozzesi più prosperità e meno tasse; li ha rassicurati, a dispetto delle posizioni di Cameron, sul fatto che anche indipendente la Scozia avrebbe mantenuto la sterlina.

Promesse e rassicurazioni che però giovedì scorso non sono bastate al vasto fronte degli indecisi per convincerli a scommettere sulle numerose incognite – moneta, rapporti con la Nato e con la Ue, gestione dei pozzi petroliferi, possibili trasferimenti di banche e imprese – legate all’indipendenza.

 

Una vittoria di Pirro?

 

La soddisfazione di Cameron e degli unionisti è ben comprensibile, ma anche la loro vittoria, per quanto netta, non è priva di incognite e avrà senz’altro un prezzo da pagare. Perché il governo centrale si è spinto a garantire agli scozzesi ulteriori autonomie in materia fiscale, di spesa pubblica e di welfare e ora dovrà realizzarle; perché in Scozia Labour e sindacati si sono spaccati sulla questione separatista; perché la surriscaldata campagna elettorale ha finito per indebolire la coalizione di governo e a guadagnarci potrebbe essere lo Ukip di Farage; perché le pulsioni indipendentistiche di quel 45% che ha votato «sì» non si spegneranno dopo questa sconfitta e Salmond, che comunque ha annunciato di volersi dimettere da leader dello SNP, ha subito chiesto a Londra di tenere fede «rapidamente» agli impegni. Insomma, la campagna referendaria scozzese non sarà priva di conseguenze e a risentirne saranno gli equilibri politici generali e i rapporti tra il governo centrale e le sue varie «periferie».

Il Regno Unito ha salvato la sua integrità, ma non ha certo risolto le tensioni e le contraddizioni che da secoli rendono complessa la questione dell’identità nazionale dei britannici. Da sempre, e anche oggi, i principali partiti hanno cercato di far passare il messaggio che siano lo Stato britannico e le sue storiche istituzioni – Parlamento e Corona su tutte – ad incarnare l’identità nazionale e a dare senso all’unità del Regno. Ma Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord restano entità diverse e parzialmente distinte, costrette a continuare a negoziare i propri rapporti e a rinnovare giorno dopo giorno il patto costituzionale che le unisce. Proprio per questo – e soprattutto alla luce delle drammatiche vicende che hanno invece segnato le relazioni fra irlandesi e britannici – quella di giovedì scorso la si deve considerare un’importante lezione di democrazia.