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Il petrolio e il conflitto politico in Medio Oriente

Massimiliano Trentin * - 17.01.2015
Gulf Cooperation Council

Con il passare delle settimane i fattori che hanno portato all’attuale crollo del prezzo del petrolio sembrano farsi più chiari ed evidenziano una situazione che ricorda nei suoi aspetti fondamentali quanto già avvenuto nel corso dei “lunghi” anni Settanta.

La decisione da parte di Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo, cioè i maggiori produttori di petrolio, e detentori di riserve a livello globale, di non ostacolare la caduta del prezzo del barile di greggio dal giugno scorso è certamente frutto della desiderio di garantire le proprie quote di mercato rispetto a concorrenti, vecchi e nuovi. La “razionalità” economica qui non sembra fare una grinza. E tuttavia, la decisione si situa all’interno di una strategia più ampia di confronto politico interno al Medio Oriente, i cui risvolti non possono che essere anche di carattere internazionale.

I Paesi arabi del Golfo, riuniti nel Gulf Cooperation Council, sono tra i pochi esportatori di greggio a poter affrontare mesi, o addirittura un anno, di prezzi del greggio molto bassi. Per questi Paesi gli introiti derivanti dalla vendita all’estero del proprio greggio costituiscono la principale, se non l’unica, voce di entrata fiscale dello stato e delle famiglie regnanti. Con questi introiti finanziano i servizi pubblici, lo sviluppo sociale dei “pochi” sudditi e le rispettive politiche estere. Gli arabi o europei che risiedono in questi Paesi viaggiano comunque in seconda classe, le persone di origine asiatica in terza o nei vagoni merci del “treno” del Golfo. Le politiche estera sono caratterizzate da una relazione ambivalente, e apparentemente contraddittoria: alleanza politica e militare con i Paesi occidentali, Stati Uniti d’America in primis, sostegno finanziario e politico a movimenti radicali operanti in altri Paesi musulmani, come riverbero della legittimazione islamico-fondamentalista delle famiglie regnanti. Questo sostegno avviene essenzialmente per via privata, grazie alle elargizioni di singoli sudditi, spesso e comunque legati alle case regnanti. La stabilità finanziaria di questo sistema politico dipende ancora dagli introiti del petrolio. Sono in corso importanti processi di diversificazione economica, e finanziaria, anche con buoni risultati. Ad esempio, lo stato del Kuwait, da decenni deriva la maggior parte delle proprie entrate dagli investimenti finanziari all’estero, più che dall’esportazione del petrolio. Il famoso emirato di Dubai fonda la propria prosperità sull’essere diventato uno snodo della finanza regionale e della logistica globale. Ciononostante, il legame tra petrolio, gas e vita economica e politica della regione rimane tuttora inscindibile.

Il successo dello sviluppo dell’ultimo decennio è stato alimentato dal rialzo dei prezzi del greggio: un vero e proprio “terzo” boom petrolifero. Ora, il vento è cambiato. C’è chi sostiene che questi Paesi possano proseguire nelle proprie spese interne ed estere anche con prezzi del greggio intorno ai 50$ al barile per oltre un anno. Altri ritengono che l’Arabia Saudita abbia accumulato riserve che le garantiscano stabilità interna fino ai 30$ al barile. Una cosa è certa, i GCC sono pressoché gli unici a potersi permettere una diminuzione tale degli introiti senza dover mettere mano in modo drastico alle finanze pubbliche. Tutti gli altri esportatori hanno popolazioni molto più grandi, e spese interne decisamente superiori: Iran, Iraq, Algeria, Venezuela, Russia, sono tutti produttori che non possono sostenere prezzi del greggio così bassi. Per citare gli esempi più significativi: il Presidente Rohani in Iran sta cercando di ravvivare l’economia dell’Iran uscendo dal regime delle sanzioni occidentali, e il miglioramento delle relazioni con Europa e USA è di grande importanza; il suo omologo Maduro in Venezuela si trova ad affrontare una crisi economica difficile e deve affrontare le prossime sanzioni statunitensi; l’Iraq, e le sue regioni curde, hanno bisogno di vendere grande quantità di petrolio per ricostruire il Paese e difendersi dallo Stato Islamico. Il calo delle rendite petrolifere, e dunque delle capacità di spesa, si accompagna alla diminuzione degli investimenti diretti esteri causata dall'instabilità politica e dalle diverse sanzioni imposte dai Paesi occidentali. In sede OPEC i membri algerini, venezuelani, iraniani o iracheni hanno accusato i colleghi del GCC di muover loro una guerra economica, con l’obiettivo di metterli fuori mercato, di destabilizzarli finanziariamente e politicamente. Certamente, le teorie della cospirazione abbondano in questi Paesi, e non sono mai state utili a comprendere gli eventi. Tuttavia, è indubbio che sono questi i Paesi ad essere maggiormente colpiti dai processi in corso. E sono questi i Paesi le cui politiche estere hanno intrapreso percorsi divergenti, se non conflittuali, con le monarchie arabe del Golfo durante tutto l’ultimo decennio del boom petrolifero.

Negli anni Settanta, la manna petrolifera aveva alimentato ed esacerbato la “guerra fredda araba” tra repubbliche populiste, e non-allineate, e le monarchie conservatrici filo-occidentali. Dopo il 1979 l’Iran della rivoluzione islamica si era posto de facto nel campo dei non allineati e nazional-populisti, sebbene “parlasse islamico” e non più laico e socialista. Fatto ancora più importante, il boom petrolifero degli anni Settanta ha dato inizio allo spostamento del baricentro della politica araba e medio-orientale dall’asse del Mediterraneo all’asse del Golfo: uno spostamento geografico che ha significato anche il ritorno dell’Islam come principale referente del discorso politico e della mobilitazione sociale.

I due campi si erano combattuti nelle sedi diplomatiche internazionali, militarmente per interposta persona nella guerra civile in Libano o nella guerra Iran-Iraq, e negli scontri marittimi nel Golfo. Il passaggio decisivo avvenne, però, nel 1986 quando l’Arabia Saudita decise di inondare il mercato petrolifero mondiale con la propria produzione a basso costo, esacerbando così la sovrapproduzione di greggio a livello globale, e mettendo fuori mercato i rivali iraniani, iracheni o algerini. Assieme all’allora Unione Sovietica, questi Paesi dovettero rivedere in modo drastico le rispettive spese pubbliche, e in molti casi andarono in bancarotta. Dovettero così accettare la “disciplina” degli aggiustamenti strutturali promossi dal neoliberismo e da quello che sarà poi definito Washington Consensus. Dal punto di vista politico-diplomatico, l’Unione Sovietica crollò, l’Iraq andò in guerra, l’Algeria scese negli inferi della guerra civile, e solo l’Iran riuscì a salvarsi grazie alla coesione e al pragmatismo del regime, guidato allora dal Presidente Rafsanjani, e al nazionalismo iraniano.

La storia non si ripete mai uguale a sé stessa perché mutano i soggetti politici e le dinamiche di sviluppo. Tuttavia, nel primo decennio del XXI secolo abbiamo riscontrato processi simili: boom petrolifero e sviluppo della competizione politica ed economica per la leadership regionale tra soggetti e campi affini a quelli formatisi a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta. La competizione economica e politica si è via via trasformata in competizione anche militare. L'occupazione anglo-statunitense dell'Iraq e la distruzione della sua unità hanno trasformato il Paese arabo nel territorio in cui i Paesi con ambizioni di leadership regionale si sono via via scontrati appoggiando questo o quel movimento politico-militare. Dato che i poli concorrenti, GCC, Iran e Turchia sono tutti governati da formazioni islamiste, non sorprende che traducano la loro competizione su base confessionale, contribuendo a "essenzializzare" e radicalizzare lo scontro: tutto viene riportato alla millenaria lotta tra Islam sunnita e Islam sciita. Per poi perderne il controllo, peraltro. L'esplosione delle rivolte arabe e la perdita del controllo territoriale da parte dello stato centrale in Siria o in Libia hanno replicato in questi Paesi quanto già visto in Iraq. Tuttavia, nessuna delle classi dirigenti della regione è riuscita a conquistare la tanto agognata leadership regionale. Né Washington sembra potere o volere ricostruire quel "momento" che aveva marcato l'apogeo del suo potere nella regione durante gli anni Novanta del XX secolo.

In mancanza delle capacità militari, e soprattutto politiche e istituzionali, per svolgere il ruolo di leadership, i GCC e soprattutto l'Arabia Saudita hanno deciso dunque di giocare la carta petrolifera per mettere al muro i propri rivali: anzitutto l'Iran e il suo possibile riavvicinamento con Washington e l'Unione Europea. E' una guerra di logoramento, per molti versi simile nella logica a quella in corso in Siria, e comunque strettamente connessa a quest'ultima in quanto Damasco è uno dei "premi" in palio. Alla fine del XIX e del XX secolo, i deficit, i debiti pubblici e le bancherotte sono stati usati come strumento di pressione politica e diplomatica da parte europea e statunitense contro i regimi "non allineati" del Medio Oriente e Nord Africa. La loro efficacia, indubbia, tuttavia si è affievolita con il passare del tempo a fronte della resilienza, e resistenza, dei regimi nazionalisti. Una cosa sembra certa: la logica del conflitto, e dell'esclusione, prevale ancora su quella della cooperazione. E la responsabilità nella scelta del conflitto non è ripartita in modo eguale tra tutti i soggetti in campo.

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna