Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Il governo e la sfida delle riforme

Paolo Pombeni - 01.02.2023
Meloni 100 giorni

Giorgia Meloni ha ragione nel sottolineare che le condizioni economiche del nostro paese non sono peggiorate, ma anzi sono un poco migliorate sotto il suo governo, così come a rivendicare l’avvio di qualche azione in politica estera che potrebbe dare risultati interessanti (è doverosa cautela non darli per acquisiti a priori). Giustamente osserva che ha appena superato i 100 giorni di attività e che non sta correndo i 100 metri ma una maratona, cioè che chiede di essere misurata sulla lunga distanza.

Questo non può però far dimenticare che al momento siamo ancora alle bandierine per quel che riguarda alcuni nodi molto importanti che sono se non dei colli di bottiglia, certo dei “rallentatori” (pesanti) sulla strada dell’uscita dalla crisi degli ultimi decenni. Si tratta di tre riforme di grande significato: quelle sulla giustizia, sul presidenzialismo, sulla autonomia differenziata (lasciamo da parte quella che sarebbe decisiva, la riforma del sistema fiscale, perché ci rendiamo conto che lì c’è da aprirsi la strada in una giungla).

Abbiamo usato le etichette correnti, sebbene esse spieghino solo malamente ciò di cui si dovrebbe discutere. Il problema della giustizia non può per esempio essere ridotto alla discussione sulle intercettazioni o sulla separazione delle carriere. Andrebbe affrontato con più coraggio, da tutte le parti, il tema del coordinamento solidale fra i poteri dello stato, liberando la magistratura dal complesso di avere il compito di raddrizzare un paese sbagliato, ma anche liberando la politica dall’idea che quello lo si possa combattere con artifici legislativi di varia natura.

In quel campo è necessaria una rivoluzione culturale rispetto al tema della corruzione nella sfera pubblica, giacché questo è il cuore della questione. Da un lato è necessario convenire che la magistratura non è un “tribunale morale di salute pubblica”, una vecchia malattia giacobina che non riguarda tutto l’universo dei magistrati, ma che ha toccato parti non marginali di esso, sostenute da un contorno di aizzatori intellettuali che a quel modo di vedere le cose vogliono associarsi. È una storia vecchia, ma che si ripropone ad intervalli.

Dall’altro lato è necessario che la politica si convinca che è essa stessa che deve costituire la prima diga alla corruzione, assumendo un atteggiamento di “tolleranza zero”, perché è proprio un certo lassismo verso gli aspetti della piccola corruzione percepiti come tollerabili la porta d’ingresso per le corruzioni devastanti. Vale naturalmente anche per il mondo della burocrazia, dove stanno componenti che hanno fatto causa comune su quel terreno con la classe politica.

Senza l’avvio almeno di una rivoluzione culturale su questo terreno sarà difficile uscire dalle secche della giustizia spettacolo. Qualcosa di simile vale anche per la discussa questione che va sotto il nome di “presidenzialismo”. Anche qui in realtà non si è chiarito quale sia l’obiettivo che ci si pone. Sperando (contro ogni speranza) che tutti si rendano conto che non c’è nessun effetto miracolistico nel mettere in mano alle passioni politiche esasperate la scelta plebiscitaria su chi deve presiedere al funzionamento del potere esecutivo, la questione da risolvere è quella di sottrarre la vita del governo dal gioco delle fazioni parlamentari, che è quanto nella nostra ormai lunga storia repubblicana ci ha consegnato a governi che durano poco e che non sono in grado di avere a disposizione i tempi adeguati per realizzare dei progetti di gestione, magari anche di adeguamento della sfera decisionale ai ritmi imposti da contesti in evoluzione storica.

Di nuovo le soluzioni possibili sono diverse, ma non si arriverà a sceglierne una che funzioni se non ci sarà alla base il riconoscimento previo della bontà dell’obiettivo da raggiungere e uno sforzo per costruirlo senza adeguarlo ai calcoli di convenienza dei vari partiti in lotta fra loro.

Qualcosa di simile si può dire per quel pasticcio che passa sotto il nome di autonomia differenziata per le regioni. Anche qui ci si rifiuta di partire dalla constatazione che le riforme regionaliste degli ultimi decenni sono state mal impostate, che hanno prodotto più conflitti fra stato e regioni davanti alla Corte Costituzionale che efficientamento delle gestioni locali, che il problema di mantenere una unitarietà nella produzione di servizi basilari come sanità e scuola è una necessità se non vogliamo cessare di essere una nazione (il che, ci si permetta di ricordarlo, coi tempi che corrono è più che pericoloso).

Invece si è voluto ridurre tutto a bandierine senza senso: volontà di ergersi a repubblichette federate da parte di alcune regioni sostenute da populismi vari, piagnistei di altre regioni timorose di vedersi sottrarre risorse guardandosi bene dal riconoscere quante ne hanno mal utilizzate e/o sperperate, battaglie contro i mulini a vento anziché contro le disfunzioni del sistema. Sarebbe molto più saggio ammettere che piuttosto di buttarsi a prevedere “devoluzioni” di bandiera sarebbe più opportuno razionalizzare bene e portare a sistema il quadro regionale che è divenuto parte della costituzione italiana, il che è un buon risultato se lo si porta a livelli di giustizia per tutti.

Quelle che abbiamo schizzato sommariamente sono riforme che dovrebbero interessare tutto il corpo politico e tutte le articolazioni sociali e culturali, perché la loro realizzazione ci farebbe sicuramente vivere in un paese migliore. Il che dovrebbe interessare tutti al di sopra, per una volta, delle zuffe politiche che tanto piacciono a certo teatrino dei media.