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Il 26 gennaio cambierà qualcosa

Luca Tentoni - 30.11.2019
Sardine contro Salvini

Dopo il voto sulla piattaforma Rousseau, il governo è un po' più debole. Le numerose tensioni nella maggioranza rischiano di acuirsi in caso di sconfitta del centrosinistra in Emilia-Romagna. Non sarebbe la prima volta che un governo cade per un voto regionale: accadde a D'Alema (che, nel 1998-2000, aveva guidato due Esecutivi di seguito) e a Berlusconi (dimissionario nel 2005 dopo la batosta subìta dal centrodestra, ma pronto a formare un nuovo governo). Stavolta il turno elettorale è limitato a due sole regioni (Calabria ed Emilia-Romagna), ma - proprio per questo - l'attenzione sulla sorte del Pd e del governatore Bonaccini è molto maggiore rispetto ad un test generale e ampio. La Calabria, infatti, è considerata marginale, sia perché centrodestra e centrosinistra si sono alternate alla guida della regione (quindi non si tratta di una roccaforte), sia perché il M5s (che pure aveva ottenuto percentuali di voto record alle politiche del 2018) è in declino, sia perché di fronte alla sfida fra Lega e Pd per il controllo del "fortino rosso" per eccellenza (l'Emilia-Romagna), la partita calabrese perde molto di significato. Il voto del 26 gennaio prossimo rischia di passare alla storia come quello del 1999 per il comune di Bologna (espugnato da Guazzaloca, che divenne sindaco per il centrodestra) e per l'opposto (la nemesi, si potrebbe dire) di quello del 1975 (quando il Pci, avanzando a valanga in tutte le regioni, pose le basi per tentare di conquistare il primo posto alle politiche del 1976: iniziò da quel "test" la "sindrome del sorpasso" che tormentò la Dc per un anno). Resta da domandarsi chi si gioca di più nella competizione emiliano-romagnola: il Pd, che rischia di perdere dopo mezzo secolo il governo della regione; il Conte-bis, che potrebbe concludere anzitempo il suo breve e tormentato percorso; la stessa Lega, che perdendo con la Borgonzoni può smarrire quell'aura d'invincibilità che fin qui (escluso il Lazio di Zingaretti, nel 2018) ha caratterizzato tutti i rinnovi di giunte e consigli regionali. Nella lista di chi rischia non abbiamo inserito il M5s, che pure parteciperà alla competizione, ma sicuramente giustificherà il magro rendimento della lista adducendo l'incertezza degli elettori e dei simpatizzanti sull'opportunità di presentarla, oltre a rimarcare la cronica difficoltà di confermare in ambito locale i buoni risultati delle politiche. Il più preoccupato, in questo frangente, potrebbe essere il presidente del Consiglio, perché se Zingaretti difficilmente farà come Veltroni nel 2009 dopo la sconfitta in Sardegna (quando il fondatore del Pd si dimise), c'è da supporre che all'entrata in crisi della coalizione di maggioranza non si ovvierebbe con una soluzione pilotata (la riedizione del governo giallorosa con la stessa guida) ma si cercherebbero discontinuità più o meno forti, senza escludere l'ipotesi di elezioni anticipate. E c'è la questione delle "Sardine": qualora, nonostante la concorrenza di un forte e agguerrito centrodestra e la presenza del M5s in gara, il Pd e il centrosinistra riuscissero ad aggiudicarsi nuovamente l'Emilia-Romagna (magari per un'incollatura e per il maggior consenso personale di Bonaccini rispetto a quello della Borgonzoni), più di qualcuno potrebbe attribuire il buon esito della competizione alla "spintarella mediatica" e politica che il nuovo movimento è in grado di dare (sia pure più per opporsi a Salvini e ai suoi candidati che per un'identificazione - che non c'è - con i partiti di centrosinistra locali e nazionali). A seguito del voto emiliano-romagnolo, infine, si dovrebbe aprire una riflessione anche nei Cinquestelle. Un conto è riaffermare la propria identità e presentare liste sempre e comunque da soli (come però non è stato fatto in Umbria), un altro conto è farlo rischiando di mettere a repentaglio il secondo governo consecutivo "del cambiamento" (il primo è finito male, l'attuale finirebbe molto peggio). A meno che qualcuno non nutra l'illusione di recuperare voti a destra riavvicinandosi ad un Salvini che però vuole solo andare all'incasso di una vittoria elettorale nazionale più che probabile. O che, peggio, qualche pentastellato creda di poter fare col Pd ciò che la Lega ha fatto col M5s: incalzarlo, tirare la corda ed eroderne l'elettorato. Il Pd, tuttavia, non ha oggi più elettori da perdere verso il M5s (qualcuno da recuperare, forse, ma non tanti), mentre chi ha già votato Lega dopo aver scelto i Cinquestelle non tornerà da Di Maio dopo che questi si è alleato "col nemico piddino". Né ci si può illudere di recuperare il consenso dei pentastellati oggi astensionisti recuperando vecchie battaglie, avendo dimostrato che da soli non si può governare e che in alleanza si finisce per accettare compromessi o per non ottenere i risultati voluti. In sintesi, forse il 26 gennaio qualcosa cambierà, nel panorama politico, anche se l'Emilia-Romagna resterà "rossa". Ma resta la sensazione di una transizione sofferta, lunga, senza una visione chiara da parte dei partiti di governo e di opposizione, rendendo il clima sempre più pesante.