Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Bipolarismo? Si fa per dire …

Paolo Pombeni - 20.12.2023
Galli Il bipartitismo imperfetto

L’idea che la politica si fondi su una contrapposizione secca destra/sinistra è una costante nella storia politica europea dall’Ottocento in avanti. La sua incarnazione esemplare doveva essere il confronto fra due partiti come si riteneva fosse avvenuto nel mitico modello inglese del XIX secolo, ma proprio dal secolo successivo anche lì le cose si erano complicate perché era arrivato il partito laburista e il confronto non era più stato rigidamente a due. Si era ripiegato sulla sublimazione del modello statunitense, ma anche questo caso sarebbe un po’ complicato inquadrare rigidamente repubblicani e democratici in uno schematico confronto destra/sinistra.

In Italia, visto che il bipartitismo non è mai esistito se non come qualcosa di “imperfetto” secondo la brillante definizione di Giorgio Galli nel 1966, ce la siamo cavata con la mitizzazione del “bipolarismo”, la banale semplificazione per cui sarebbe sempre esistito un polo di destra (conservatore?) ed uno di sinistra (progressista? riformista?), con buona pace della DC che si teneva dentro l’uno e l’altro e nella sua azione pencolava fra i due. Naturalmente se vogliamo farla facile possiamo anche accettare la banalizzazione per cui in politica coesistono sempre le due componenti di chi vuol più o meno tenersi le cose come stanno e di chi pensa che solo cambiando il quadro e andando avanti si possa affrontare il futuro.

Ogni lettore capisce al volo che sono semplificazioni che lasciano il tempo che trovano perché le mescolanze fra le due fattispecie sono molteplici, perché esistono sempre un’area che vuole un progresso moderato e sostenibile ed una che vuole una conservazione consapevole di doversi adattare alle evoluzioni della storia. Chiamatelo “il centro” se vi piacciono le vecchie bandiere.

Questa lunga premessa per affrontare l’operazione che si sta cercando di mettere in piedi nella politica italiana di oggi: il ritorno ad un confronto muscolare fra la destra e la sinistra, messo in scena, non proprio in maniera brillante, dalle due concomitanti iniziative romane di FdI e del PD. Le tradizionali bandierine della contrapposizione fascismo/antifascismo non sono ammainate, perché servono sempre per eccitare i riflessi condizionati delle platee, ma in tempi di spettacolo vengono rinforzate e magari oscurate dalla rappresentazione di due presunti “orgogli” di parte.

A destra Giorgia Meloni, che proprio non riesce a lasciarsi alle spalle la sua storia di agitatrice populista, rivanga l’eterno mito del vincitore di una battaglia i cui risultati gli invidiosi sconfitti vorrebbero mutilargli. Con sicuro intuito dei sentimenti di una componente non certo minoritaria dell’opinione pubblica cavalca la denuncia dei miti della politica spettacolo e del consumismo di una certa subcultura che crede di essere dominante. A sinistra Elly Schlein chiama a raccolta quelli che continuano a credere nei mantra della lotta all’ordine capitalistico, ora declinato come anti ambientalismo, promozione delle diseguaglianze, negazione della democrazia e dei diritti.

Nessuna delle due contendenti è in grado di acquisire appieno la leadership del suo polo. Ciascuno di essi è formato di una pluralità di componenti che stanno insieme o per non perdere l’aggancio col potere come avviene a destra, o per tenere viva la prospettiva di poter sottrarre quel potere agli attuali detentori, cosa possibile solo con un cosiddetto campo largo come avviene a sinistra.  In realtà ciascuno dei due poli è travagliato da competizioni interne, che non sarebbero più di tanto strane (ogni formazione politica conosce lotte per l’occupazione del potere), se non fosse che in entrambi i casi ciò che manca è la costruzione di una prospettiva politico-ideologica minimamente unificante.

A destra l’ideologia della “rivincita del polo escluso” è propria solo di FdI, perché il centrodestra ha vissuto almeno vent’anni di potere grazie a Berlusconi e quanto ad occupazione di posizioni dominanti non è che abbia avuto da lamentarsi. La stessa Lega, con l’ampio dominio che ha esercitato ed esercita nelle regioni del Nord Italia, fatica ad apparire come una forza estranea a posizioni di governo. Quanto ad ideologia la marmellata di idee che ha nutrito il berlusconismo nelle sue varie fasi così come l’andirivieni leghista fra il confuso federalismo delle origini e la virata demagogica del salvinismo non sono materiali per costruire un approccio comune, né è in grado di offrirlo il risentimento contro la cultura repubblicana classica che ha caratterizzato FdI. Meloni sembra a volte provare a proporre lei la sintesi di un nuovo conservatorismo all’altezza del XXI secolo, ma non ci riesce, almeno per ora, un po’ per le sue nostalgie dei vecchi tempi, un po’ per carenza di persone capaci di costruirne la cultura necessaria.

A sinistra non si è certo messi meglio. La lunga fascinazione per il movimentismo interpretato come incubatore di una svolta radicalmente riformatrice (un fenomeno che data ben prima dell’avvento di Schlein e compagni), il mito della necessaria rifondazione dalle fondamenta del sistema politico italiano (accentuato dalle pseudo ideologie propagate da Tangentopoli ed eventi successivi), la dipendenza da ambienti della comunicazione che spingevano per la spettacolarizzazione della “alternativa”, sono tutti elementi che da un lato hanno indebolito, vorremmo dire snervato il partito erede nelle sue varie versioni della contrapposizione alla DC, e dall’altro hanno favorito la nascita di quello strano fenomeno che è il grillismo, oggi trasformatosi in una lobby politica che punta a guadagnare il controllo della possibile sostituzione della destra al potere.

In questo quadro ci pare difficile parlare di bipolarismo in senso positivo. Si tratta per ora dello scontro fra due alleanze cementate più da interessi di corto respiro che da visioni programmatiche del futuro. Siamo ancora nell’ambito di un processo di evoluzione della politica italiana i cui esiti non ci sembrano prevedibili.