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Appunti sul voto di domenica scorsa

Luca Tentoni - 29.01.2020
Affluenze elezioni

È stato già scritto molto - quasi tutto - sul voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Ci limitiamo dunque, in questa sede, a sottolineare alcuni aspetti particolarmente significativi. Il primo è che il voto regionale non è necessariamente l'occasione per astenersi. Il fatto che nello stesso giorno in Calabria abbia votato il 42,5% (ricalcolato escludendo gli italiani all'estero: 52,3%) e in Emilia-Romagna il 67,7% (71,3%) non è affatto dovuto alla tradizione che vede il Sud più astensionista del Nord. Nel 2014, in Emilia-Romagna si votò meno che in Calabria. La differenza sta nelle motivazioni che spingono gli elettori a recarsi alle urne. Mentre per le politiche c'è un costante interesse generale, per altri tipi di consultazione bisogna tenere conto di tre fattori: 1) c'è una quota di elettori che vota sempre, indipendentemente da tutto; 2) c'è una fascia che vota se la competizione è in bilico o comunque aperta, cioè se il proprio voto conta e può decidere la gara; 3) se ci sono motivazioni mobilitanti (la nazionalizzazione della campagna, per esempio). In Calabria l'esito era scontato: lo si capiva leggendo delle vicende che avevano preceduto la presentazione delle candidature e l'evoluzione politica locale. Quindi, complice il fatto che la partita nazionale si giocava altrove e che la Calabria è una regione che "si può perdere" senza danno, perché è stata conquistata quattro volte dal centrodestra e due dal centrosinistra, dal 1995 in poi, è andato a votare solo chi aveva una motivazione "di base" per farlo (abitudine o conoscenza dei candidati). In Emilia-Romagna, invece, l'affluenza è stata superiore a quella delle europee perché è accaduto di tutto: 1) si era in una regione storicamente "rossa", che correva il rischio di essere espugnata dalla destra sovranista di Salvini (non dal centrodestra, considerando l'apporto scarso o nullo dato alla coalizione della Borgonzoni dal voto a Forza Italia); 2) i sondaggi pubblicati negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane (fin quando è stato possibile) davano i due maggiori contendenti quasi alla pari, divisi da poche decine di migliaia di voti; 3) l'arrivo di Salvini e la sua campagna martellante (nella quale ha dato sicuramente tutto ciò che poteva, ma forse ha dato troppo, suscitando reazioni sul versante opposto al suo) ha avuto come conseguenza la nascita delle "Sardine", la rimobilitazione dell'elettorato di sinistra critico nei confronti del Pd e persino di quello pentastellato (moltissimi elettori del M5s hanno preferito il candidato di centrosinistra e talvolta persino la lista del Pd o la civica Bonaccini, pur di togliersi di torno il capo leghista e la sua candidata); 4) la nazionalizzazione della competizione ha spinto una regione che è ancora (sia pure di poco, come l'Umbria di cinque o sei anni fa) prevalentemente di sinistra, a respingere il "referendum" sul governo Conte, sottraendo alla Lega il "casus belli" escogitato per attribuire alle regionali emiliano-romagnole fini del tutto diversi da quelli attinenti alle istanze locali. È così accaduto che le città roccaforti del centrosinistra, come Bologna, hanno fatto registrare percentuali di consensi ai partiti della coalizione Bonaccini vicine al 60%. Nel capoluogo regionale il Pd è sceso dal 42,9% delle precedenti elezioni al 39,3%, ma ha guadagnato 28mila voti; la coalizione è salita al 60,6%, cioè ad un livello che l'intera sinistra (comunisti compresi) aveva raggiunto nella Seconda Repubblica soltanto nel 2005 (62,2%, regionali). In quanto al quadro complessivo, sono stati espressi 2,35 milioni di voti validi, contro i 2,25 delle europee, i 2,53 delle politiche e l'1,25 delle regionali 2014. Il Pd e i suoi alleati ne avevano 894mila nel 2018, 891mila nel 2019, 615mila nel 2014; oggi ne hanno - di lista - 1,04 milioni. Per contro, il centrodestra, che nel 2014 ne aveva 374mila, è salito nel 2018 a 838mila e nel 2019 a 1 milione (cioè ha superato il centrosinistra per circa 110mila voti), attestandosi domenica 26 gennaio a 981mila. In termini di consensi ai presidenti, il centrosinistra ne ha ottenuti 1,195 milioni e il centrodestra 1,014. Ciò significa che - rispetto alle europee - l'"effetto Salvini" ha portato ben pochi voti in più - rispetto al 2019 - alla sua candidata, ma ha spinto circa 113mila persone a scegliere le liste di Bonaccini e 304mila a votarlo come presidente. Da dove vengono questi voti? Come spiega bene l'Istituto Cattaneo, dal M5s. I pentastellati avevano ottenuto 159mila suffragi nel 2014 (regionali), saliti a 698mila alle politiche del '18 e scesi a 290mila alle europee del '19; oggi ne hanno solo 102mila (ma il loro candidato ne ha presi appena 80mila). In altre parole, può darsi che in un anno siano andati via "in libera uscita" dal M5s verso la sinistra circa 190-210mila voti, più che sufficienti per ribaltare i rapporti di forza delineati alle elezioni europee. Questo non toglie, tuttavia, che l'Emilia-Romagna sia una regione "contendibile", cioè che non possa essere conquistata in futuro da un partito o da una coalizione diversa da quella confermata al governo, sebbene stavolta (grazie a fattori che in Umbria non erano presenti e comunque non sarebbero stati necessari per far vincere un centrosinistra molto più indebolito, in quel caso, di quello emiliano) l'assalto del centrodestra sia stato respinto. Forse, con il "modello Guazzaloca" (un candidato diverso, molto radicato sul territorio, rispettato anche dagli avversari) e con una presenza meno costante e pervasiva del leader leghista, magari evitando anche di nazionalizzare il voto regionale, l'affluenza e l'esito sarebbero stati diversi. Quasi sempre, per aprire una porta, è meglio usare la chiave giusta che dare una spallata.