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“Uomo politico, nonostante la mia volontà”

Michele Marchi - 24.02.2018
Georges Pompidou. Lettres, notes et portraits

A cosa serve la storia? E nello specifico la storia politica? A poco o nulla, verrebbe da dire osservando l’evoluzione della disciplina nei principali percorsi universitari dedicati alle scienze umane e alla scienza politica. Ma non è questo il luogo, né il momento, per questo genere di riflessioni. Forse la storia potrebbe essere minimamente utile per parlare al nostro confuso e caotico presente, quello di una campagna elettorale surreale, condotta nella convinzione che si tratti solo di un primo tempo e che sul finire dell’anno si andrà a giocarne un secondo, si spera, decisivo. Nella corsa affannata alla ricerca di una candidatura, a tutti i costi e in qualsiasi angolo del Paese, purché possa offrire qualche possibilità, anche minima, di elezione, la mia mente di storico è volata Oltralpe. E non ha esitato a soffermarsi su un personaggio politico al quale da qualche anno sto dedicando un po’ di attenzione. Si tratta di Georges Pompidou, secondo presidente della Quinta Repubblica, ma prima (dal 1944 al 1946) nel gabinetto del generale de Gaulle capo del governo provvisorio francese, suo fedele collaboratore per una parte consistente della cosiddetta “traversata del deserto”, poi capo di gabinetto del Generale nei mesi cruciali e fondativi del 1958 e infine lungamente Primo ministro (dal 1962 al 1968), prima di sostituire il più illustre dei francesi alla guida del Paese (tra il 1969 e il 1974). Pompidou è un personaggio trascurato, definito troppo spesso l’ombra del Generale o il suo delfino, almeno quanto tragico, considerata la lunga malattia e la sofferenza degli ultimi drammatici mesi di una carriera politica, al contrario, brillante e stroncata a soli 63 anni. Ma cosa c’entra tutto ciò con la campagna elettorale italiana e le corse ad un posto da deputato e/o senatore, alla quale seguiranno quelle altrettanto forsennate ad un incarico ministeriale o ad una poltrona da sottosegretario? Scorrendo con fare un po’ annoiato le cronache di viaggi ad Arcore per riaprire le liste o di notti insonni a via del Nazareno culminate in pianti e liti da comari e leggendo divertito di oramai ex deputati disperati all’idea di non riuscire più a sostenere il precedente tenore di vita, ho pensato di rileggermi alcune lettere di una corposa corrispondenza di Georges Pompidou (Georges Pompidou. Lettres, notes et portraits – 1928-1974, Robert Laffont, 2012).  E ho trovato alcune considerazioni che, in questo grigiore, ho letto e riletto. E non ho potuto pensare che forse una dimensione “civile” la storia politica può ancora regalarla. Può forse parlarci di una politica fatta di impegno e distacco.

Georges Pompidou entra quasi per caso nel gabinetto del generale de Gaulle, il tramite è un brillante compagno di corso nella classe preparatoria per l’accesso all’Ecole Normale Supérieure. Si chiama Réné Brouillet, vicino agli ambienti democristiani, avrà una luminosa carriera nella diplomazia e per più di un decennio tra i Sessanta e i Settanta sarà ambasciatore francese presso la Santa Sede. Pompidou è un giovane professore di letteratura francese, penna virtuosa, ma allo stesso tempo grande capacità di analisi politica. Charles de Gaulle lo nota immediatamente, non poteva essere altrimenti. Anche se non ha alle spalle, anche per evidenti ragioni di età, l’epopea resistenziale accanto al Generale, entra di diritto nella sua più ristretta cerchia della “fidelité”. Quando de Gaulle abbandona il governo ed inizia la sua battaglia contro la “Repubblica dei partiti” Pompidou è al suo fianco, in maniera discreta, mai in prima fila, ma a gestire i dossier più delicati come ad esempio, le finanze del Rassemblement du Peuple Français, lo strumento che il Generale fonda nel 1947 per cercare di scardinare dall’interno la IV Repubblica. Quando de Gaulle, almeno temporaneamente, sembra gettare la spugna nel 1953, Pompidou avvia una fulminea carriera dirigenziale presso la banca Rothschild. Come è noto la cosiddetta “traversata del deserto” del Generale si interrompe sull’onda del rischio di colpo di Stato proveniente da Algeri. Chi vuole nuovamente accanto a sé de Gaulle a fine maggio 1958? Naturalmente Georges Pompidou, il quale si getta corpo ed anima nella folle corsa che conduce, in meno di tre mesi, alla scrittura della carta costituzionale della Quinta Repubblica. Ma è qui che si innesta la prima importante riflessione. Cosa ha chiesto Pompidou al Generale al momento di accettare l’incarico di capo del gabinetto del nuovo Primo ministro? Lo apprendiamo leggendo la missiva che Pompidou gli invia il giorno precedente al referendum confermativo sulla nuova Costituzione, previsto per il 28 settembre 1958. In caso di vittoria (il successo, come noto, sarà plebiscitario) Pompidou chiede al Generale che rispetti le condizioni poste nel maggio precedente: una volta completata la transizione verso il nuovo sistema costituzionale Pompidou vuole chiudere la parentesi politica e tornare alla sua vita precedente. Chiede esplicitamente al generale di “ridargli tutta la sua libertà”. Pompidou è pronto a rinunciare ad un ruolo quasi certo di Primo ministro, per quale ragione? Lo esplicita, in una lettera al fedele amico di infanzia Robert Pujol a fine gennaio 1959, quando appunto il Generale lo ha “liberato”. I mesi accanto a de Gaulle, ultimo Primo ministro della IV Repubblica, sono stati esaltanti, Pompidou ha svolto il ruolo di primo collaboratore del Generale e ha contribuito attivamente al lancio della nuova Repubblica, ma gli mancano la vita coniugale e il tempo per il figlio, la lettura di un buon libro e la visita ad un museo e gli mancano ancora il lavoro e la possibilità di arricchirsi quel tanto che basta per “vivere bene, essere liberi e fare del bene”.

Credo che siano due le riflessioni possibili di fronte a questo “disimpegno” di Pompidou. Da un lato la convinzione che la via della politica e del servizio per la Repubblica non debbano assolutamente condurre all’arricchimento personale. La realizzazione professionale ed economica passano per la banca e non per i cosiddetti “palazzi del potere”. In secondo luogo la convinzione che la “fidelité” nei confronti del Generale, e di conseguenza del Paese non si potrà comunque mai rompere. Non a caso de Gaulle, a partire dal 1960, sceglie naturalmente Pompidou per avviare i primi, segreti, contatti con gli emissari del Fronte Nazionale di Liberazione Algerina. Alla base dei negoziati che conducono agli accordi di Evian del marzo 1962 vi è proprio il futuro Primo ministro.

E l’arrivo a Matignon, il 14 aprile 1962, è ancora una volta un esempio del completo disinteresse e dell’impegno politico come puro e semplice spirito di servizio. Nell’estate del 1961 de Gaulle vorrebbe l’ingresso di Pompidou nel governo Debré, come ministro delle Finanze. Oramai la parentesi algerina si sta chiudendo e il cambio di Primo ministro è all’orizzonte. Nei progetti del Generale si tratterebbe di un approccio morbido, prima della nomina dello stesso Pompidou alla guida del governo, una volta ratificati gli accordi per l’indipendenza algerina. Ancora una volta Pompidou rifiuta l’incarico governativo. È in un’altra lettera all’amico Pujol, di qualche settimana successiva alla rinuncia, che Pompidou utilizza la frase scelta per il titolo di questa breve riflessione: “uomo politico, nonostante la mia volontà”. Perché dal 1944, dall’ingresso nel gabinetto del Generale, Pompidou ha iniziato una carriera politica “suo malgrado”. Da quell’istante ha servito il Paese, senza mai servirsene, con discrezione, senza mai apparire e restando in prima linea solo nei momenti strettamente necessari. Le righe che scrive a Pujol sono già ricche di quella certezza malinconica di chi sa che presto giungerà la chiamata diretta del Generale e la poltrona di Matignon non potrà essere rifiutata.

Per tutto questo e per molto altro ancora Georges Pompidou mi pare un simbolo, un affresco di estrema attualità. Egli è l’impegno, ma allo stesso tempo il distacco. È la competenza e la preparazione, la conoscenza dei dossier e la riservatezza nel trattare quelli delicati, ma allo stesso tempo non è la carriera e l’arrivismo. Pompidou ricorda quanto la politica, se è vera politica, tolga e sottragga, senza dare. Quanto questa elimini privilegi, piuttosto che offrirne, come sia lei a chiamare e non vada rincorsa, necessiti di passione, almeno quanto di lucidità e razionalità. E’ questo uno dei grandi insegnamenti di Georges Pompidou e di una storia politica che è sempre storia del tempo presente: la politica è totalizzante, ma non può essere totale. È ambizione almeno quanto deve essere disincanto.