Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Le elezioni 2018 fra "centro" e "periferia"

Luca Tentoni - 16.12.2017

Nella competizione del prossimo marzo, un ruolo non irrilevante sarà giocato dal rendimento dei "poli" fra centro e periferia. Mentre il M5S sembra non risentire molto di alcune differenze territoriali fra capoluoghi di regione e altri comuni, per centrosinistra, centrodestra e sinistra questa distinzione non solo è valida, ma "pesa" molto sul risultato finale. Così è stato nel 2013: sebbene i comuni capoluogo di regione (19 più Bolzano e Trento) rappresentassero appena il 15,9% dell'elettorato nazionale, sono stati determinanti per far vincere al centrosinistra il premio di maggioranza alla Camera dei deputati. Infatti, Pd e alleati hanno avuto circa 126mila voti in più del centrodestra (10.049.393 contro 9.923.600: lo 0,37% sul totale) ma nei capoluoghi il vantaggio è stato pari a quasi 521mila voti (33,8% contro 24,4%). Per contro, il centrodestra ha sorpassato il centrosinistra negli altri comuni (30% contro 28,8%). Questa volta, si dirà, il sistema elettorale è diverso: non serve avere un voto in più a livello nazionale (o regionale, in Senato), perché non c'è premio di maggioranza. È vero. Però anche il risultato delle liste e delle coalizioni avrà un peso politico, senza contare che il centrosinistra dovrebbe teoricamente essere avvantaggiato nelle aree urbane maggiori e svantaggiato nei piccoli centri (quindi - rispetto alla media di voto di ciascuna regione e del Paese - leggi tutto

Nel nostro futuro c'è la Prima Repubblica?

Luca Tentoni - 09.12.2017

Osservando i dati dei sondaggi, che stimano due forze politiche intorno al 25-30% dei voti e due fra il 10 e il 15%, alcuni parlano di "ritorno alla Prima Repubblica". Se l'espressione denotasse la necessità di formare governi di coalizione sorretti da molti partiti, si potrebbe dire che la Prima Repubblica non è mai finita: le maggioranze di centrodestra e di centrosinistra che - con l'intermezzo di governi tecnici e grandi coalizioni - hanno caratterizzato il periodo fra il 1994 e il 2017 non sono mai state monocolori. Non ci sono riusciti neanche Forza Italia nel 2001 e il Pd nel 2013 (entrambi possessori di un gran numero di seggi, ma insufficiente per non dover cercare alleati). Neppure l'impianto prevalentemente uninominale maggioritario del "Mattarellum" ridusse i partiti parlamentari e i partecipanti alle coalizioni di governo. Semmai, l'unica differenza fra l'eventuale esito delle elezioni del 2018 e di quelle del periodo 1994-2013 è che potrebbe non essere possibile formare alcuna maggioranza (ci sono partiti, infatti, che non intendono coalizzarsi oppure che sono dichiaratamente e reciprocamente incompatibili con altri): invece, nella Prima Repubblica, ci si è in qualche modo sempre riusciti (nessuna legislatura, inoltre, è durata meno di tre anni, mentre nell’ultimo quarto di secolo ben tre non hanno superato i due anni). Allora Pci (eccetto il leggi tutto

Il "doppio binario" della prossima campagna elettorale

Luca Tentoni - 02.12.2017

Sebbene preveda una competizione "all'inglese" per assegnare il 36,8% dei seggi in altrettanti collegi uninominali, la nuova legge elettorale (165/2017) ha un impianto quasi puramente proporzionale, attenuato in minima parte dalla soglia di sbarramento al 3% e dal premio eventuale e di incerta misura che si può conseguire aggiudicandosi una quota di seggi "maggioritari" superiore alla propria percentuale di voti (e seggi proporzionali) nazionali. Vincere in 116 dei 232 collegi in palio (il 50%), per esempio, avendo il 35% dei voti, può voler dire salire da un numero teorico di seggi di 220 (il 35% del totale complessivo, eletti "esteri" inclusi) a 255 (40,5% dell'intera Assemblea di Montecitorio, nel nostro esempio). Non un grandissimo premio, a guardar bene, ma è verosimile che nel prossimo Parlamento persino una manciata di seggi in più possa favorire la creazione (o impedire la formazione) di una coalizione di governo. Ciò non vuol dire affatto, tuttavia, che assisteremo ad una campagna elettorale giocata solo a livello locale, nei 232 collegi per la Camera e nei 116 per il Senato. Quella uninominale sarà però una delle due "gare" del prossimo marzo, insieme a quella (nazionale) per la quota proporzionale (e per il raggiungimento della soglia del 3%, per i partiti minori). In pratica, si è passati da un sistema (1994-2001) nel quale i leggi tutto

Elezioni 2018: l'ipotesi del "doppio voto"

Luca Tentoni - 25.11.2017

Per la prima volta nella storia della Repubblica, si ipotizza che la prossima legislatura possa terminare nel giro di poche settimane, con un nuovo ricorso alle urne a poca distanza dall’insediamento delle nuove Camere. Del resto, nel 2013 sembrava impossibile rieleggere un Capo dello Stato uscente, ma è accaduto, così com'è accaduto, nel 1992-'94, che un sistema dei partiti strutturato crollasse in pochi mesi. Il doppio voto "politico" del 2018, dunque, è uno scenario non improbabile, soprattutto perché la combinazione fra un'offerta politica "plurale" e il sistema elettorale vigente può non assicurare una maggioranza ad un qualsiasi nuovo governo. Molte forze politiche, infatti, non sono coalizzabili fra loro: né prima, né dopo il voto. L'ipotesi di un "governo del Presidente", stavolta, potrebbe non avere i consensi necessari in Parlamento. Resta da verificare - lo faremo in questa sede - se tecnicamente sia davvero possibile andare a nuove elezioni entro giugno, dopo quelle di marzo. Procediamo per gradi. In primo luogo, lo scioglimento delle attuali Camere dovrebbe aver luogo nei primi giorni del 2018: le elezioni si terrebbero verosimilmente il 4 o l'11 marzo. Assumiamo per buona la prima data: in tal caso, la prima riunione delle Camere della XVIII legislatura si terrebbe non oltre venti giorni, quindi probabilmente fra leggi tutto

Parole povere. Il linguaggio della Seconda Repubblica

Luca Tentoni - 18.11.2017

Le elezioni che si avvicinano saranno vinte più imponendo le priorità e la "narrazione" che ingaggiando battaglie di idee. È così, ormai, da lungo tempo, non solo (ma soprattutto) dall'inizio della Seconda Repubblica. L'elettorato è cambiato, ha mutato - in media, al ribasso - gusti e sensibilità, però il prodotto che la politica gli ha offerto è diventato, col passare degli anni, sempre più scadente. Una sorta di junk food, che in un bel libro uscito per Laterza pochi mesi fa ("Volgare eloquenza") Giuseppe Antonelli definisce icasticamente così: "in principio c'era il politichese, fatto di parole latine e oscuri riferimenti colti; oggi c'è il politicoso: un linguaggio che sta alla politica come il petaloso sta ai fiori". Come spiega l'autore, con l'ausilio della televisione, dei nuovi media e soprattutto di tecniche di marketing, si è scelto di raggiungere un elettorato sempre più distante dalla politica facendo ricorso alla "retorica dell'abbassamento". L'eloquenza di molti politici, afferma, "può essere definita volgare proprio a partire dall'uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo (vulgus)", così, "nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue: qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di leggi tutto

La "retrotopia", il pericolo del nostro tempo

Luca Tentoni - 11.11.2017

Il passaggio dall'età delle garanzie (i "Trenta gloriosi": 1945-1975) a quella della globalizzazione ha prodotto conseguenze sociali e politiche che la crisi economica dell'ultimo decennio ha accentuato. In molti sondaggi condotti nei più grandi paesi occidentali si nota una costante percezione, da parte dell'opinione pubblica, che non solo il tenore di vita, ma in generale il mondo che si lascerà alle prossime generazioni saranno caratterizzati da una maggiore insicurezza, da una più elevata disuguaglianza economica fra i ceti e da un impoverimento della classe media e di quella già ora meno abbiente. La risposta "emotiva", diciamo così, è un rovesciamento di prospettiva: se non si riesce a credere ad un futuro di "magnifiche sorti e progressive" e non si accetta il presente, si prova a puntare sul passato. Un passato idealizzato, una sorta di Arcadia nella quale anche gli aspetti più negativi sono oggi visti in modo meno doloroso, quasi sfumato. Questa chiusura si riverbera nel desiderio - che sembra guadagnare terreno nell'opinione pubblica - di un ritorno ai vecchi stati nazionali, all'elogio dell'unità che presuppone il rifiuto della diversità. Secondo Zygmunt Bauman (nel libro scritto poco prima di morire: "Retrotopia", Laterza 2017) stiamo sperimentando una nuova stagione di "nostalgia": citando Svetlana Boym, l'autore ricorda leggi tutto

Centro-periferia, le radici storiche del voto lombardo-veneto

Luca Tentoni - 04.11.2017

Nelle ultime due settimane, l'esito dei referendum consultivi in Lombardia e Veneto è stato analizzato sotto moltissimi aspetti. L'Istituto Cattaneo, per esempio, ha confermato l'apporto essenziale della Lega (che con i suoi due presidenti di regione ha fatto da traino alla consultazione) e il contributo degli elettori del M5S (in misura maggiore rispetto a Pd e Forza Italia) all'affluenza. Si è sfiorato, in alcune analisi, un tema che tuttavia ci appare cruciale nella piena comprensione delle dinamiche di questo voto: il differente comportamento degli elettori dei capoluoghi rispetto a quello degli aventi diritto al voto che vivono negli altri comuni. La maggiore affluenza "in provincia" è dovuta alla forza della Lega, che nelle città principali ottiene sempre percentuali molto più basse che altrove, mentre nel caso del M5S c'è una maggiore omogeneità. L'"impronta leghista", dunque, spiega molto, ma a nostro giudizio non tutto. C'è una correlazione forte fra i voti al Carroccio e l'affluenza, ma c'è anche una differenza strutturale che risale addirittura alle elezioni per l'Assemblea Costituente. La "disomogeneità elettorale" che si riscontra confrontando le percentuali dei partiti nei capoluoghi e nei non capoluoghi è un elemento che in Lombardia e ancor più in Veneto ha contrassegnato l'intera storia repubblicana. Inoltre, non è affatto leggi tutto

Dove va la democrazia?

Luca Tentoni - 28.10.2017

Le democrazie contemporanee sono chiamate giornalmente a misurarsi con nuove sfide (la globalizzazione, la crisi economica, il terrorismo) e con nuovi soggetti politici (i partiti populisti, ma - più in generale - i populismi, siano essi di governo o di opposizione). È in questo contesto che, alla ricerca di alternanza, una parte consistente dell'opinione pubblica finisce per preferire la rottura, come testimoniano alcuni dei più importanti appuntamenti elettorali dell'ultimo biennio. Lo stesso populismo ha cambiato natura: "il divorzio fra le classi popolari in generale, quella operaia in particolare, e la sinistra socialista, al pari dell'erosione continua delle classi medie offre spazi politici al populismo". Così, "le democrazie sono divise da un cleavage territoriale che oppone, da un lato, le grandi metropoli globalizzate, inserite economicamente e culturalmente nel mondo e, dall'altro, il mondo dei piccoli e medi comuni, rurale, in ritirata di fronte ai grandi flussi della crescita e del cambiamento". Questo è il quadro che emerge da una delle più importanti ed estese ricerche internazionali, appena pubblicata ("Où va la démocratie?" - 2017, ed. Plon) e realizzata dall'Ipsos per la Fondation pour l'innovation politique (Fondapol). Il volume è una miniera di dati sullo stato della democrazia e dei singoli 26 paesi esaminati (22 dell'Unione europea, più Svizzera, Norvegia, leggi tutto

Crisi della politica e panacea "tecnica"

Luca Tentoni - 21.10.2017

Puntualmente, gli ultimi sondaggi (fra i quali quello di Demos&Pi per "Repubblica" del 16 ottobre) delineano un panorama partitico frammentato, nel quale nessun soggetto, da solo, è neppure in grado di arrivare a conquistare il 30% dei voti validi (per di più, in un contesto nel quale l'affluenza stimata alle politiche della primavera 2018 appare molto inferiore al 75% del 2013). Il "consenso sociale" dei singoli partiti è dunque molto più basso del proprio peso numerico: ciascuno dei due più forti (Pd e M5S) non arriva a rappresentare neppure il 20% degli aventi diritto al voto. Persino le possibili aggregazioni nei collegi uninominali della riforma elettorale "in fieri" sono accreditate di una quota di consensi che al massimo è pari o di poco superiore a un terzo dei consensi espressi dagli intervistati. Salvo le roccaforti storiche di partiti e coalizioni (alcune delle quali, peraltro, appaiono indebolite dalla smobilitazione e della fluidità elettorale dell'ultimo decennio) stiamo probabilmente per assistere, in molti collegi uninominali, a battaglie che si giocheranno e si vinceranno con margini di poche centinaia o migliaia di voti, con esiti talvolta prossimi al limite della casualità. L'indice di bipartitismo, alle prossime politiche, potrebbe attestarsi intorno a quota 53-54, contro il 51% del 2013, il 46% del 2001, il 41,6% del 1996, il 41,3% del 1994, il 45,8% dell'anno di transizione 1992. leggi tutto

È meglio giocare per non vincere?

Luca Tentoni - 14.10.2017

I risultati delle ultime elezioni in Germania hanno confermato una tendenza ormai abbastanza consolidata in alcuni regimi democratici: se c'è una "Grande coalizione" uscente, i partiti di opposizione guadagnano consensi. Nel caso tedesco del 2017, CDU-CSU (-8,6%) e SPD (-5,2%) hanno fatto registrare diminuzioni in termini percentuali (a vantaggio soprattutto di Fdp e AfD), mentre - alla fine della "grande coalizione necessitata" del 2011-2013 - in Italia, fu il Pdl a pagare il prezzo più alto (il 15,8% dei voti, pari a poco più di sei milioni; anche il Pd, tuttavia, perse in voti assoluti 3,5 milioni di consensi e in percentuale il 7,8%). Per fare un esempio più lontano nel tempo si può risalire al 1979, quando il Pci cedette il 4% dei voti mentre la Dc restò sostanzialmente sulle posizioni del 1976 (si trattava, è bene ricordarlo, di una Grande coalizione in due fasi e del tutto anomala: un’intesa politica ma senza l’ingresso dei comunisti al governo e, all’inizio, addirittura con la sola “non sfiducia”). In tutti i casi, le opposizioni ne hanno tratto frutto: alla fine degli anni Settanta, da noi, i radicali ebbero un notevole incremento di voti (per l'epoca, quando la mobilità elettorale era modesta) passando dall'1,1 al 3,4%. Nel 2013, tranne Idv e Lega (che attraversavano un momento particolare) leggi tutto