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Ventotene e lo stato di “debolezza comune”

Michele Marchi - 27.08.2016
Merkel, Hollande e Renzi a Ventotene

E’ evidente che con la scelta di Ventotene per il secondo vertice a tre (Francia, Germania, Italia) del dopo Brexit, Matteo Renzi ha cercato il gesto simbolico e ad effetto. Come hanno spiegato autorevoli opinionisti (tra i migliori i contributi quello di Giovanni Belardelli Un’Europa concreta con obiettivi chiari su Il Corriere della Sera del 15 agosto scorso e di Piero Graglia *) non ha molto senso comparare l’attuale situazione del processo di integrazione europea e i momenti bui del 1941 quando in esilio forzato sull’isola pontina, una pattuglia di antifascisti guidata da Altiero Spinelli, immaginava un’Europa unita e liberata dal giogo nazifascista. Ben poco di quell’anelito utopico e visionario si è concretizzato nelle successive formule della Ceca, della Cee e dell’Ue. Ma affermare questo non significa sottostimare l’importanza di quel momento e di quello scritto. Esserne consapevoli aiuta a ricordare quanto in politica, ieri come oggi, i simboli siano decisivi. E di conseguenza i tre mazzi di fiori deposti da Hollande, Merkel e Renzi sulla tomba di Spinelli possono rappresentare un passaggio importante, a patto che prefigurino davvero un nuovo inizio.

E un ipotetico nuovo inizio non può prescindere da una netta cesura rispetto alla condotta tenuta perlomeno nell’ultimo decennio dai principali leader europei. È indispensabile un possente sforzo pedagogico di verità da parte dei principali responsabili politici innanzitutto dei tre Paesi fondatori, a maggior ragione dopo il referendum britannico del giugno scorso.

La prima verità è quella forse più traumatica, ma è anche la matrice costitutiva di una possibile ripartenza. Appare indispensabile affermare con chiarezza e semplicità che l’eventuale dissoluzione dell’Ue, (ipotesi per nulla peregrina) unita alla crisi che sta vivendo la Nato con i casi ucraino e turco (sull’Onu è meglio tacere per non infierire), condurrebbe al ritorno della logica di potenza e al conseguente scontro tra grandi potenze. Un’evoluzione di questo genere vedrebbe i singoli Stati europei fare la fine dei “vasi di coccio tra quelli di ferro”. Come potrebbero competere da un punto di vista strategico con la coppia Usa-Cina, la rinascente Russia e le velleità neo-ottomane della Turchia di Erdogan, solo per fare un esempio?

La seconda verità da pronunciare è, se possibile, ancora più banale ma non per questo meno decisiva. Il progetto europeo avrà un futuro solo se tornerà ad essere generatore di opportunità. Lo potrà essere a livello economico? Si potrà cioè riproporre il metodo funzionalista, la logica del prima l’economico poi arriverà il politico? La risposta è no. Il funzionalismo è morto, seppellito nel mancato completamento dell’unione economica e monetaria del dopo Maastricht. Jacques Delors lo ha più volte ripetuto: il percorso non doveva fermarsi alla moneta comune. In base al Trattato firmato a Maastricht nel febbraio 1992 erano previsti meccanismi di armonizzazione economica ad oggi ancora non attuati. E’ mancata la politica e i principali responsabili di questa “carenza” abitano a Berlino. Ma piangere sul latte versato oggi non ha senso. Può forse servire invertire l’equazione e cioè ripartire dalla politica. Difesa comune e gestione dei flussi migratori (con conseguente revisione, almeno temporanea, delle regole di Dublino ma anche parzialmente di quelle di Schengen) potrebbero costituire un punto di inizio. Peraltro qualche successo in questo ambito potrebbe far risalire di qualche punto il gradimento delle opinioni pubbliche nei confronti del processo di integrazione.

Terza importante verità: dire in maniera netta che lo slogan “non serve meno Europa, ma più Europa” è generico, vacuo, politicamente corretto e utile solo a portare acqua al mulino dei cosiddetti “euroscettici”. In alcuni ambiti (ad esempio quelli elencati di difesa e gestione dei flussi migratori) serve certamente maggiore integrazione, in altri (vedi le assillanti normative in materia alimentare o l’iper-burocratizzazione della governance con sedi a Bruxelles e Strasburgo) decisamente no. Inutile dunque ripetere sino allo sfinimento lo slogan del “più Europa”.

Quarta importante verità della quale prendere atto e da sottolineare: il carattere oramai saldamente intergovernativo del processo di integrazione. Dalla crisi del 2008 (ma in realtà già da quella aperta dal doppio “no” referendario di Francia e Olanda del maggio 2005) l’unica Europa che abbiamo in campo, criticabile finché si vuole, è quella dei capi di Stato e di governo. Il Trattato costituzionale (poi abortito) e il successivo trattato “riparatore”di Lisbona, avrebbero dovuto favorire la dimensione comunitaria. Gli eventi hanno stravolto completamente i progetti. Anche da un punto di vista simbolico sono i capi dei (principali) governi  a dettare la linea. Nel dopo Brexit questo è risultato evidentissimo. Il 27 giugno si è avuto il primo vertice del “direttorio” Berlino-Parigi-Roma nella capitale tedesca. Lo stesso giorno i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno pubblicato un interessante documento che prospetta il rilancio della difesa comune europea. Ora è giunto il summit a tre di Ventotene. Nei prossimi giorni Merkel incontrerà tutti i principali capi di Stato e di governo europei dell’area est e nord per preparare il vertice a 27 (senza Londra) che, attenzione, non si svolgerà a Bruxelles ma a Bratislava (il pretesto è la presidenza di turno della Slovacchia). Se come si è detto i simboli contano, le istituzioni di Bruxelles non sono in prima linea in questa fase così delicata. Non lo è il Parlamento, ma non lo è soprattutto la Commissione Juncker e nemmeno la presidenza fissa del Consiglio (nella persona del polacco Tusk).

Manca un’ultima verità, che dipende direttamente da quella precedente. Un’Europa più intergovernativa significa un’Europa ancora più legata alla contingenza politica interna e di breve periodo dei principali Paesi. L’Europa degli Stati deve fare i conti con capi di Stato e di governo che acquisiscono o perdono legittimazione e di conseguenza legittimità nel quotidiano confronto con le proprie opinioni pubbliche e soprattutto nei numerosi appuntamenti elettorali di ciascuno Stato membro. A questo proposito il “trio di Ventotene” non può celare una vera e propria “debolezza comune”, considerato l’anno che si aprirà con il referendum costituzionale in Italia (autunno 2016) e si chiuderà con le elezioni per il Bundestag tedesco (settembre 2017) e che, a metà strada (aprile-maggio 2017), si concederà anche il voto presidenziale francese.

Se si pensa ad una ripartenza dell’Unione, il ruolo dei tre leader di Ventotene (meno quello di Hollande, più quello di Merkel e Renzi) è imprescindibile. Se da leader nazionali accettano la scommessa e tentano di tramutarsi in statisti europei, dovranno avere il coraggio di presentare il quadro in maniera fedele, senza occultare verità scomode e agendo come se l’annus horribilis all’orizzonte non esistesse. Se davvero saranno pronti a dimenticare le scelte di breve periodo, se davvero saranno disposti a giocarsi la rielezione o la permanenza al governo o addirittura il loro futuro politico, forse il processo di integrazione avrà qualche possibilità di entrare in una nuova era e a loro sarà garantita una pagina nei futuri libri di storia. Se la “debolezza comune” dovesse prevalere, il declino del progetto europeo e del complessivo ruolo strategico del Vecchio Continente occuperanno qualche capitolo di quegli stessi libri di storia.

 

 

 

 

http://www.ispionline.it/articoli/articolo/europa/vertice-di-ventotene-piu-retorica-che-impegni-precisi-15601