Vent'anni di Putin: 3) La politica estera. La potenza come culto
Un nuovo ordine mondiale dentro schemi tradizionali? Per illustrare percorsi e risultati della politica russa degli ultimi due decenni è utile partire dalla recentissima attualità. Un reticolo di avvenimenti cosi composto: 15 gennaio, Putin all’Assemblea federale della Duma afferma il bisogno di modifiche costituzionali; 16 gennaio, Michail Mischustin diventa il nuovo capo del governo; 17 gennaio, in un intervista alla RIA Novosti il vice responsabile del MAE russo, Sergej Rjabkov, afferma la “piena continuità” della politica estera del nuovo esecutivo; 23 gennaio, 75° della liberazione di Auschwitz, Putin al memoriale dello Yad Vashem illustra il progetto di una conferenza dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, (P5), allo scopo di “contrastare le minacce alla pace globale”. Un idea che il presidente aveva già esposto, in maniera più articolata, all’Assemblea Federale. Si delinea cosi un intreccio istituzionale segnato dal continuum tra politica russa interna ed internazionale. Come se per concentrarsi sul consolidamento interno Mosca sentisse il bisogno di tirare il fiato all’esterno. Come se il dislocamento dei poteri nazionali per avere successo dovesse avvenire dentro cornici internazionali accettabili.
Stabilizzare le avanzate geopolitiche dell’ultimo decennio e legittimarne i risultati. Ecco i fattori che secondo il Cremlino permetterebbero una transizione interna meno traumatica possibile. E quale scenario migliore di una Russia forza motrice di una conferenza di potenze che nel 75° anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica consacrerebbe la continuità tra la potenza globale dell’URSS e quella della Russia contemporanea? Se poi il summit dovesse concludersi il 9 maggio, data dell’annuale parata militare sulla Piazza Rossa e, quest’anno, giorno previsto per la proclamazione della nuova Costituzione, il prestigio interno ed estero di Mosca sarebbe immenso. Ecco dunque i motivi che hanno spinto Putin a rivolgersi ad altre nazioni proponendo di forgiare insieme il mondo futuro. Sarà possibile consacrare i nuovi centri del potere globale con un summit di Stati che 70 anni fa erano potenze ma ora non lo sono più trascurando gli attuali paesi emergenti? Soprattutto se il suo scopo sta nella ratifica dei successi chi lo vuole realizzare?
A grandi linee ecco i capisaldi internazionali, un processo complesso e contraddittorio, della ventennale leadership russa di Putin. All’inizio del proprio mandato il giovane presidente afferma la possibilità dell’ingresso di Mosca nella Nato. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle offre massimo sostegno agli USA, appoggia l’azione dell’esercito americano in Afghanistan e si dice disponibile al disegno di Grande Europa da Lisbona a Vladivostok. In un discorso tenuto al Bundestag in gran parte in tedesco, il 21.IX.2001 afferma la scelta europea della Russia, si impegna alla libera circolazione dei capitali e alla creazione di uno spazio economico comune. In questa fase la politica estera di Mosca, orientata alla modernizzazione economica, abbandona la retorica imperiale di fine anni ’90. Contemporaneamente, nei casi in cui ritenga minacciati i propri interessi, il Cremlino fa capire di essere pronto a tornare agli strumenti tradizionali delle grandi potenze. La prima fase della politica estera del nuovo presidente è un miscuglio di idee liberali e realistiche. Una intessitura di pragmatismo ed economicismo. Approccio seguito da Putin fino alla metà del suo secondo mandato. Nel 2006 questa strategia subisce un primo esemplare cambiamento: l’amministrazione russa riconoscendo che il vero o presento tentativo di integrazione nelle strutture occidentali non ha funzionato, inizia una diplomazia più aggressiva. Partendo dai progressi economici dovuti alle esportazioni di idrocarburi e dal desiderio di riacquistare lo status di grande potenza, Mosca si preoccupa meno della propria immagine. Dal punto di vista retorico questo atteggiamento verrà sanzionato nel 2007 alla Conferenza per la sicurezza di Monaco. Nella capitale bavarese Putin espone quanto le élite del paese ritengono essere l’insegnamento della Guerra Fredda: il socialismo è fallito, altrettanto è successo col dispendioso imperialismo universalista e l’esercito non è il migliore strumento per espandere l’influenza statale. La politica estera russa prosegue il proprio corso sempre più pragmatico. Con un pizzico di malizia la si potrebbe definire una copia parziale del modello occidentale: capitalismo, egoismo nazionale più petrolio e gas. Con la differenza che ora gli argomenti polemici tornano quelli di fine anni ’90: lo statuto del Kosovo e il ritiro degli USA dal trattato anti missili balistici. Accettata nel 2002, la rinuncia di Washington all’ABM viene bocciata dopo l’annuncio americano dello stazionamento in Polonia e nella repubblica Ceca di parti del proprio scudo antimissilistico globale. Altri motivi di discordia sono la ratifica della convenzione sulle forze armate convenzionali in Europa e l’allargamento a est della NATO. La politica dell’Alleanza atlantica di ammettere l’ingresso delle repubbliche ex sovietiche – soprattutto Ucraina e Georgia – viene respinta in quanto violazione dello status-quo. Nell’agosto 2008 le lunghe tensioni tra Russia e Georgia sboccano nella guerra. Il conflitto con Tbilisi permette alla dirigenza russa di raggiungere due obiettivi: ottenere il sostegno pressoché unanime della popolazione e dimostrare la propria imprescindibilità nello spazio post sovietico. Nonostante la dimostrazione di forza, o forse a causa di questa, la Russia esce dallo scontro caucasico diplomaticamente isolata. Persino i paesi centroasiatici e partner nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai non riconoscono la secessione di Abkhazia e Ossezia del sud.
Nel biennio 2014-2015 il putinismo si radicalizza. Gli interventi in Ucraina e Siria registrano il ritorno del fattore militare nella politica russa. Con l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass, Mosca vuole soprattutto ottenere il riconoscimento del ruolo internazionale, grande potenza e zone d’influenza, che le spetta. L’ideologia svolge un ruolo secondario. Diverse le ragioni della protezione di Assad. Anche in questo passo, nostalgia del passato, legami storici e convenienze economiche sono in secondo piano. Importanza ha invece la paura dell’islamismo radicale che dopo un’eventuale vittoria in Siria potrebbe scaricarsi sul Caucaso russo.
Decisivo è però il fatto che dopo gli avvenimenti libici e il formarsi della protesta nella stessa Russia, occorra bloccare ogni forma di regime change sostenuta dall’esterno. Prendendo parte al conflitto armato siriano il Cremlino punta a tre obiettivi: stabilizzare il regime di Assad, deviare l’attenzione dagli avvenimenti ucraini, spostare a proprio favore i rapporti di forza in Siria e Medio Oriente utilizzandoli come moneta di scambio per l’alleggerimento delle sanzioni. Al momento nessuno di questi scopi appare a portata di mano. Se Assad controlla militarmente gran parte del paese, la distanza tra Russia e Occidente non è diminuita. Mentre la pace è lontana e in patria la guerra è impopolare, il rientro dei soldati è difficile. Assad è politicamente fragile, gli alleati di Mosca, Iran e Turchia, perseguono interessi non in linea con quelli del Cremlino. Con Ankara soprattutto il rapporto è fragile e, come si vede a Idlib, può facilmente passare dal partenariato alla rivalità. Anche in Libia la presenza russa si è affermata. Il sostegno militare a Chalifa Haftar è però meno metto di quello di cui gode Assad. A Tripoli Mosca non vuole chiudersi a nessuna opzione. Per ora prevalgono gli interessi economici, vendita di armi e attenzione al settore energetico. È in questa contingenza mondiale che sta avvenendo quello che nel 2017 il ministro russo degli Esteri, Sergej Lavrov, ha definito l’alba dell’ “ordine post-occidentale”. Una sistemazione vecchia che, secondo Mosca, soprattutto in Europa andrebbe rivista. Se per l’UE gli accordi e i principi esistenti – Carta di Parigi e Memorandum di Budapest - sono ancora validi, per la dirigenza russa non è cosi. Mosca esprime il sentimento di non essere parte dell’attuale architettura della sicurezza europea dominata dalla NATO.
La conferenza P5 può raggiungere gli obiettivi che Mosca ha in mente? Il vertice delle potenze vincitrici, dovrebbe fare a meno delle potenze sconfitte Germania e Giappone. Anzi un vertice di questo tipo sottolineerebbe l’incapacità geopolitica di Berlino e Tokio. Esattamente quello che è avvenuto 75 anni fa prima a Yalta e poi a San Francisco. Proprio nel ricordo di quanto avvenuto nel 1945 stanno i pericoli maggiori per Vladimir Putin. Un formato di quel tipo raggiungerebbe oggi risultati sostanziali? In Europa e Asia i paesi alleati dei 5 grandi accetterebbero il ruolo di pedine come avvenuto dopo la seconda guerra mondiale? La Francia che senza il sostegno tedesco vale ben poco come potrebbe far valere il proprio punto di vista? Come spiegare la presenza di un paese al momento debolissimo come la Gran Bretagna e l’assenza di una potenza in ascesa come l’India? Tutto nelle premesse di un tale incontro rispecchierebbe il punto di vista russo del diritto internazionale: un gruppo di Stati sovrani e indipendenti alla testa di un concerto internazionale. Per gli altri paesi il copione prevede la limitazione della sovranità per seguire le rispettive potenze. Se un piano di questo tipo dovesse andare in porto, il trionfo interno di Vladimir Putin sarebbe enorme. Dopo il superamento della linea rossa nel 2014 e dopo sei anni di confronto aperto con l’occidente questa nuova distensione sarebbe ciò di cui avrebbe bisogno il Cremlino per riaffermare la propria posizione di potenza globale. Niente male come eredità di un ventennio di governo. Soprattutto se si pensa da dove si era partiti. Funzionerà?
* Dottore di ricerca in Storia dell’Europa orientale e autore di Nel Cuore d’Europa, Textus 2019.
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