Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Uno strano partito s’avanza?

Paolo Pombeni - 22.02.2023
Primarie PD

L’elezione del segretario del PD che avverrà domenica 26 febbraio con le cosiddette primarie dovrebbe suscitare qualche riflessione sullo stato della “forma partito” nel nostro contesto italiano. Nonostante le non poche vicissitudini che hanno portato alla sua formazione, il Partito Democratico rimane forse l’unico che aveva conservato un rapporto con la tradizione dei partiti di massa novecenteschi: una articolazione territoriale con una tradizione di partecipazione popolare, un sistema di selezione delle classi dirigenti che derivava dal percorso interno nella vita del partito, un sistema decisionale di tipo competitivo fra le sue componenti.

Negli altri partiti si è affermata ormai una deriva leaderistica che identifica ciascuno con un “capo” (massimo due o tre), con scarso o per lo più inesistente dibattito interno, con una selezione delle classi dirigenti legate alle fedeltà col vertice, con insediamento territoriale per lo più di facciata. Fa una parziale eccezione FdI, che aveva le caratteristiche della forma partito classica, ma che le sta perdendo, anzi forse le ha già perdute travolta dell’improvviso balzo elettorale.

Ma torniamo al PD. Ciò che colpisce nella vicenda di un presunto percorso costituente è innanzitutto la sua lungaggine. In astratto in una “comunità” (come usano definirsi) che dovrebbe discutere e confrontarsi di continuo e stabilmente non ci dovrebbe essere necessità di tempi lunghi per scegliere quale sbocco dare a quanto si era dibattuto. In concreto tutti vedono che si è dibattuto molto relativamente nel partito e che piuttosto si tratta di coinvolgere i militanti nella decisione su quali temi scegliere fra quelli che vengono imposti dall’esterno (mode, talk show, social media e quant’altro). Ci vuole tempo perché gruppi dirigenti che si sono in larga parte formati ormai fuori delle logiche di partecipazione alla cultura e all’azione politica possano condurre le proprie campagne di promozione di quelle idee.

La testimonianza più evidente dello scadimento di quella che una volta si chiamava la “vita di partito” è nel meccanismo di selezione del segretario politico. Sappiamo tutti che non è più tempo che quella “vita” significhi condivisione di forme di socialità: le “case del popolo” e affini sono ormai cose per vecchietti con nostalgia per il tempo che fu. Tuttavia è abbastanza curioso che si sia deciso di inventare per la selezione del vertice un percorso tortuoso e francamente senza molto senso.

Sgombriamo il campo dalla mitologia delle “primarie”. Quel meccanismo aveva un senso quando si trattava di scegliere il candidato per una competizione elettorale che doveva ovviamente pescare ben al di là degli “iscritti”, anzi quando, come per lo più in Italia, si doveva scegliere una candidatura che andasse bene per una platea che era composta da più partiti coalizzati. Nel caso di un solo partito che deve scegliere il suo “dirigente” non ha molto senso chiedere il parere di chiunque si presenti al seggio, senza che si sappia nulla di lui. Ci si fonda sulla sua autodichiarazione del momento (dice che è e sarà un elettore del partito, ma nessuno può verificare se è stato vero e se continuerà ad esserlo), come prova si usa la riscossione di un obolo ridicolo (due euro), non si può controllare che qualcuno raccolga ipotetiche “truppe cammellate” da portare al voto per sostenere il suo gioco.

Nel caso specifico del PD questa volta ci si è spinti ancora più in là: si è deciso che chiunque poteva iscriversi e votare già nella veste di militante fino a un pugno di giorni prima delle votazioni nei circoli. In pratica si è ammesso che ci si potesse iscrivere non perché si voleva “militare” nel partito, ma solo perché si voleva votare per questo/a o per quello/a.

Il massimo dell’assurdo si è raggiunto, a nostro modesto avviso, con la restrizione di fatto del confronto fra due candidati, un’espressione di una storia personale di militanza anche lunga, una che al partito si è iscritta solo per poter competere per la segreteria, nonostante prima da quel partito avesse avuto posizioni non irrilevanti tenendosi sempre fuori di esso.

Può una situazione del genere apparire adatta a rilanciare quello che, nonostante tutto, rimane il più strutturato partito di opposizione? Anche a voler considerare i successi passati di M5S e a dar per buoni i sondaggi che corrono, in questo caso siamo davanti ad un partito senza radicamento territoriale, con scarsissima democrazia interna, insomma ad un soggetto inadatto a costruire una dialettica costruttiva nel nostro sistema costituzionale. Di conseguenza il PD rimane il solo perno possibile per costruire quella dinamica di confronto senza la quale un sistema democratico non funziona.

Ciò che preoccupa è che il PD abbia deciso di non mettersi nelle condizioni di esercitare quel ruolo (che non è solo nel suo interesse, ma in quello del sistema, inclusa l’attuale maggioranza). Un confronto sui programmi dei candidati segretari ci fa vedere piuttosto dei cataloghi molto simili di luoghi comuni (ambientalismi, cosiddetti diritti, lavoro, emarginazione, ecc. ecc.) senza uno straccio di proposte “azionabili” come si sarebbe detto con un vecchio linguaggio (cioè in grado di trasformarsi in realizzazioni). La differenza finisce così per essere fra una proposta di “riformismo” (Bonaccini) ed una di “integralismo” (Schlein), mentre la raccolta del consenso avviene sulla base di “agitazioni” promosse dal teatrino dei talk show e dei loro predicatori, che per ragioni di bottega inclinano più per Schlein che possono presentare come una loro creatura (e lo è) che per Bonaccini colpevole di venire da una tradizione di socialdemocrazia, solida, ma un po’ ambigua e un po’ reticente come è quella emiliana.

È difficile che comunque vada il PD non finisca per implodere, nonostante le rassicurazioni che ogni candidato dà di essere disponibile a collaborare col vincitore qualora lui perdesse. Il partito non può riaffermarsi come perno dell’opposizione e dunque come competitore per una futura vittoria se non produce una linea programmatica coerente, pensata e autonoma dalle suggestioni delle piazze mediatiche. Gli attuali gruppi dirigenti che non potranno essere messi in panchina tanto facilmente, chiunque vinca, non sono molto attrezzati per questo cambiamento. Le risorse andrebbero cercate fuori dei palcoscenici dei teatrini della politica, ma per questo ci vuole un coraggio e uno spessore che necessita non solo di un leader, ma di un movimento di opinione a sostegno.