Una storia lunga

Evitiamo di interpretare quello che è successo nelle elezioni amministrative con le categorie semplicistiche dell’antirenzismo o del cambio generazionale. Ci sono anche quei fattori, ma non sono tutto. Se non collochiamo quel che è successo in una storia più lunga non solo ci precludiamo di capire cosa è successo, ma rischiamo di non ragionare bene su ciò che potrà succedere.
La spinta che ha portato i Cinque Stelle ad ottenere un notevole successo nelle urne del 19 giugno è un episodio di quella transizione della politica italiana che è emblematicamente iniziata nel 1992-1994 con la crisi del sistema dei partiti della prima repubblica e la discesa in campo di Berlusconi. E’ da quel biennio che la domanda di una «nuova classe politica», che peraltro circolava già da anni (e Craxi a suo tempo l’aveva intuita, pur sbagliandone completamente la gestione) è divenuta un elemento destabilizzante del nostro sistema. Destabilizzante perché non è ancora riuscita a produrre un nuovo equilibrio ragionevole, che è quello in cui tutte le componenti si riconoscono parte di un medesimo destino che sono impegnate a non compromettere.
Sino ad oggi un’opinione pubblica sempre più disorientata è corsa ad inseguire quella che in termini classici si definisce «l’alternativa». Prima ha creduto di trovarla in Berlusconi che si proponeva di aprire le porte delle varie stanze dei bottoni a coloro che ne erano tenuti fuori dal vecchio e ormai logoro sistema dei partiti. Ne è seguita una dialettica impazzita: Berlusconi ha aperto relativamente ai nuovi e in compenso ha ripescato molto dei vecchi. Nel momento in cui ha preso il potere è divenuto lui stesso un pezzo, anche molto ingombrante, del «sistema». La sinistra ha risposto cercando la novità nel chiamare in campo il «papa straniero» Romano Prodi. Non che fosse convinta sino in fondo dell’operazione, ma si è assoggettata ai tempi, salvo pretendere dal nuovo condottiero che si mettesse a capo di una federazione rissosa, che congelava nelle varie e numerose sigle partitiche i tradizionali professionisti della politica.
E’ andata avanti così nella contrapposizione fra due mondi che erano sempre meno portatori di istanze di rinnovamento e promotori di una «circolazione delle elite» sino a che entrambi non si sono reciprocamente logorati. E’ in quel momento che sono nate, non esattamente in contemporanea quanto ai tempi, ma certo quanto a collocazione, le due reazioni: il “vaffa” di Grillo e la sfida del «giovane» Renzi alla nomenclatura della vecchia sinistra. Due fenomeni entrambi con notevoli capacità di mobilitazione: nichilista, almeno tendenzialmente, la prima, disponibile alla rifondazione del sistema la seconda.
Ideologicamente sono due facce di una stessa medaglia a cui si possono riconnettere gli ultimi avvenimenti. Il «vaffa» ha portato all’aumento esponenziale dell’astensionismo. Ovviamente non per una manipolazione meccanica dell’elettorato, bensì perché era l’espressione della disillusione nella capacità della politica di governare la crisi del presente. Il successo di Renzi perché nasce dalla rivolta del «popolo delle primarie» contro l’ultima nomenclatura del partito istituzionale della sinistra. Come spesso accade, ad incarnarla era finito un uomo non proprio connaturale a quel ruolo come è Bersani, ma la storia della caduta dei regimi è crudele.
Si dirà: ma ora ha vinto il «vaffa», e dunque come la mettiamo? In realtà non è così. Renzi, come tutti i rottamatori, paga il prezzo dello scontento di chi lo vede trasformato in un uomo di potere, con la sua inevitabile corte che a tutto è interessata, meno che a promuovere circolazione delle elite, perché le porterebbe una concorrenza che non gradisce. E tacciamo su un bel po’ di compromessi con i «convertiti», altro fenomeno che non manca mai in circostanze del genere.
Quanto a Grillo, generando dalle piazze del «vaffa» un movimento e mettendolo in parlamento e poi in televisione, ha creato un meccanismo di circolazione delle elite. Poiché questo meccanismo si è rivelato più capace, almeno a livello mediatico, di quanto si prevedeva, è nata l’aspettativa che, finalmente, fossero arrivati i nuovi messia tanto attesi, capaci di portare il popolo fuori del dominio degli antichi idoli e dei loro sacerdoti. Il successo di questo tipo di candidati è ora sotto i nostri occhi.
Si tratta di veri o di falsi profeti? Di miraggi generati dalle attese inconsce di un popolo che vuole vedere una via d’uscita dalla crisi storica attuale, o dell’autentico avvio di un nuovo ciclo nella selezione della classe politica? Non lo capiremo in tempi brevi, ma neppure in tempi molto lunghi. La prova di tutto starà nel vedere se allo choc di questo nuovo sussulto nella transizione italiana si risponderà positivamente da parte delle forze che ora sono messe sotto scacco.
Una risposta reattiva, ma positiva, tendenzialmente riporterà in equilibrio il sistema: sia perché completerà il passaggio di poteri ad una nuova classe dirigente nelle istituzioni tradizionali (e non è un problema di generazioni, ma di rinnovo del personale), sia perché costringerà il movimento che ora assapora la sua legittimazione come forza di governo a mettere in atto dinamiche che lo portino a compiere appieno quel passaggio, lasciando per strada le tante scorie della prima fase di impianto.
di Paolo Pombeni
di Francesco Lefebvre D’Ovidio *