Una politica da psicanalisi
Mentre la casa rischia di bruciare i pompieri discutono su chi di loro ha pagato le bollette dell’acqua e su che colore debbano avere le bocchette a cui attaccare le pompe antincendio. È questo l’azzardata metafora che ci viene alla mente osservando il dibattito politico attuale. Da un lato l’avviarsi più che stentato della “messa a terra” del PNRR mette a rischio i finanziamenti del Recovery europeo fino al punto che si ipotizza di rinunciare ad una parte di essi. Dal lato opposto le forze politiche si perdono in giochetti che dipendono dalle pulsioni a sfruttare le scorciatoie dei pregiudizi e dei riflessi condizionati da cui ampiamente dipendono i vari schieramenti.
Ci viene difficile non inquadrare in questo secondo ambito sia le sparate su fascismo e antifascismo delle due sponde, sia le trasformazioni in sterili dibattiti sui “diritti” di quanto dovrebbe riguardare il governo dei cambiamenti sociali e culturali che sono cresciuti senza gli opportuni interventi di mediazione lasciando tutto vuoi all’individualismo sfrenato vuoi alla cieca illusione di ritornare ad un mondo che non c’è più.
La contingenza del rischio di disperdere una opportunità unica come è il finanziamento del Recovery europeo dovrebbe spingere tutti a “mettersi alla stanga” come ha autorevolmente chiesto il presidente Mattarella. A parole tutti si dichiarano disponibili, nei fatti perdono tempo a discutere su chi ha costruito la stanga e sulla distribuzione dei posti fra quelli che dovrebbero tirare. Come abbiamo già avuto occasione di dire, per il nulla che conta la nostra opinione, c’è solo una flebile traccia di una revisione strutturale del nostro meccanismo decisionale e di un avvio di rivoluzione culturale nella considerazione dei doveri della sfera pubblica.
In compenso ciascuno cerca di compattare le sue truppe su vecchie o su nuove parole d’ordine che in parte eredita dal suo passato (la destra, ma anche la sinistra), in parte raccatta da un’ansia di radicalismo tipica delle fasi di transizione (la sinistra, ma anche la destra). Proviamo ad addentrarci in questo caos.
La pulsione a ridimensionare il giudizio storico sulla negatività del fascismo è stata all’origine del Movimento Sociale Italiano, che proprio per questo ebbe a lungo le caratteristiche di un movimento neofascista (lo denunciò De Gasperi nell’ultima fase della sua attività politica, lo ripeté Moro nei primi anni Sessanta). Poi la partecipazione della destra alla nostra vita costituzionale ha progressivamente ridimensionato quelle pulsioni, ma nella coltivazione delle leggende a cui ci si era nel frattempo abituati. Una di queste è la messa in discussione dell’esperienza resistenziale, che trova consistenza nella concentrazione su episodi particolari. La vicenda dell’attentato di via Rasella a Roma è uno di questi: una tecnica di guerriglia urbana poco praticata nel nostro contesto cui seguì una risposta bestiale da parte degli occupanti. Come per tutto quel che avviene nei casi di guerriglie e guerre cosiddette asimmetriche, si può discutere in eterno ex post su quanto le tecniche di attacco tipo attentati fossero efficaci e utili (se ne dibatté anche a suo tempo in seno alla resistenza con posizioni niente affatto unanimi), ma sono discussioni oggi senza senso perché tutto va inquadrato nel contesto di una lotta impari ed esasperata dalla ferocia nazifascista, quando i ragionamenti astratti funzionavano poco.
Il presidente del senato ha fatto una grande sciocchezza nel volersi improvvisare uno storico riproponendo come vere leggende che correvano nella sua parte (il reparto tedesco attaccato era fatto di pensionati musicisti per cui l’azione aveva solo causato un eccidio di nostri prigionieri), ma ha soggiaciuto alla riproposizione di quanto per anni è stato sostenuto nei meandri della destra marginalizzata dallo sviluppo della democrazia italiana. Le risposte di certo antifascismo di maniera sono altrettanti riflessi di Pavlov: mettere in discussione, sia pure in maniera sbagliata, “un” episodio della resistenza non mette in questione la radice antifascista della nostra Carta Costituzionale, perché quella radice è nella storia complessa della risposta della “democrazia” alla dittatura di destra non in una acritica esaltazione di ogni e qualsiasi episodio della lotta partigiana. L’antifascismo della nostra Carta fondamentale è la negazione del mito propagandato con un certo successo dal fascismo secondo cui la democrazia era un sistema politico tramontato ed è la decisione coraggiosa di ridare al nostro Paese un sistema politico fondato appunto sulla democrazia sociale. E poiché di questo oggi godono tutti i cittadini italiani, in questa restaurazione democratica devono credere ed essa li accoglie tutti. Ovvio poi che il contributo determinante a quella ricostruzione, essenziale per ricollocarsi sulla via dello sviluppo sociale, è venuto da quanti, nei vari tempi, a vari livelli e in vari modi, si batterono per far porre fine alla parentesi dittatoriale e antidemocratica che si era instaurata in Italia.
Sembra incredibile che non si riesca a convenire su una visione storica di questo tipo anziché continuare a seguire quelli che, da una parte e dall’altra, pretendono di rimettere in scena il passato attribuendo a sé stessi meriti che non hanno. Ma il tema è quello malnato delle cosiddette “identità”, che in realtà sono per lo più leggende perpetuate per tenere in piedi steccati e sfuggire a qualsiasi verifica critica su quanto ciascuno propone per il futuro delle nostre comunità.
La rinascita del radicalismo neo giacobino, iniziata dai tempi di Tangentopoli, è dovuta alla constatazione che le vecchie fratture, destra contro sinistra, stavano perdendo presa su generazioni che si confrontavano con tempi nuovi. Per questo le si è volute rinverdire con la contrapposizione stereotipata fra le fantasie su un mondo nuovo in cui tutto doveva essere possibile e le paure che spingevano alla nostalgia capace di rinviare a tempi miticamente pacificati dalla condivisione di una “tradizione”. La conseguenza è tutto un rincorrersi sui due versanti di nuove invenzioni per rinfocolare queste divisioni, di “piazzate” (reali e mediatiche) per metterle in scena, di promozione di nuovi predicatori che servono per aizzare le folle.
É di fronte a questi fenomeni che ci pare adeguato proporre che la politica sta diventando più materia da psicanalisi delle folle che da governo del nostro destino. Non è la prima volta che accade, ma quando è già successo non sono mai stati bei tempi.