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Una politica con pochi passi avanti

Paolo Pombeni - 20.03.2019
Berlusconi e Salvini

Si dice che tutto si sbloccherà dopo il 26 maggio, ma chissà se sarà vero. Il dubbio viene perché non si riesce a capire come potrebbe chiarirsi una situazione che rimane sospesa ad attendere fatti sulla cui realizzabilità ci sono perplessità più che legittime.

La questione che al momento rimane incomprensibile, è come si potrà uscire dalla dipendenza dalla maggioranza giallo-verde. Si continua a sostenere che quando le urne delle europee avranno certificato una Lega in netta ascesa, un M5S in altrettanto netto calo e un PD in discreto recupero avremo un panorama politico profondamente mutato rispetto a quello che ci ha consegnato il voto del 4 marzo 2018. Può essere, anzi è molto probabile che sarà così a stare ai sondaggi, ma trasformare questo nuovo contesto in un nuovo equilibrio politico non sarà facile.

Il passaggio più naturale sarebbe lo scioglimento della legislatura e una nuova tornata elettorale. Sorvoliamo sul problema, niente affatto secondario, di come si potrebbe affrontare la prova in estate o nel primo autunno, con l’incombere di una nuova legge finanziaria da approntare. Ci pare che il nodo fondamentale sia però un altro: al momento non si vede come dalle urne possa, con la legge elettorale vigente, uscire la possibilità di una maggioranza diversa da quella attuale. L’abbiamo già scritto e lo ribadiamo: neppure l’area che in prospettiva si avvicina maggiormente al 50% delle rappresentanze parlamentari, cioè il centrodestra, ha una qualche garanzia relativa di raggiungere l’obiettivo. Aggiungiamoci che per Salvini, ammesso che i risultati confermassero i trend dei sondaggi, significherebbe dover trattare con Berlusconi e con la Meloni, che deterrebbero i voti chiave e se li farebbero pagare. Insomma una navigazione tutt’altro che facile.

I Cinque Stelle sono in calo, ma sono sempre più chiusi nel vicolo cieco in cui si sono cacciati. Per loro rompere il contratto di governo significa trovarsi in una terra di nessuno in cui rischiano di morire di inedia politica. Non hanno infatti alcuna alternativa da sostituire all’accordo con la Lega, perché si sono bruciati i ponti alle spalle. Anche se forse nel parlamento attuale potrebbero dal punto di vista numerico puntare ad un governo con il blocco delle sinistre, facendo così venire meno l’ipotesi che sia possibile uno scioglimento anticipato della legislatura, hanno acquisito un discredito politico tale che sarebbe difficile per il PD gettarsi nell’avventura di un governo con loro. È difficile immaginare infatti che Di Maio e soci si mettano ordinatamente a sostenere un esecutivo tipo quello passato di Gentiloni: certo non con i numeri parlamentari attuali, ancor più nel caso di un risultato elettorale dopo l’ipotetico scioglimento delle Camere che li vedrebbe ridimensionati in maniera pesante.

Per la ripresa del PD può essere facile entusiasmarsi, ma al momento è solo effetto della reazione di una parte dell’opinione pubblica che non si rassegna all’andazzo della politica giallo-verde. Non è un fatto banale, ma non ha dimensioni tali da consentire al partito guidato da Zingaretti di divenire la trave portante di una alternativa. Del resto i segnali di rinnovamento sono per ora limitati alla retorica: le posizioni dei gruppi dirigenti rimangono più o meno quelle, così come le facce che le interpretano. Al più si prospetta qualche apertura a personaggi presi dai talk show, cioè qualcosa che, almeno nelle precedenti esperienze, ha acceso molte speranze e dato pochi risultati.

Vediamo allora che si torna a parlare, con cautela, di riprendere in mano il tema della riforma del sistema elettorale, interpretato ancora una volta come l’artificio che può costringere il sistema a dare forma compiuta a nuovi equilibri. Al di là della diffidenza per le capacità taumaturgiche che nel nostro paese si riconoscono alle tecniche elettorali (sin qui smentite dai risultati che hanno prodotto), il nodo che ci sembra difficile sciogliere è che per fare questa riforma occorre ottenere che le Camere la votino, cioè che gli attuali parlamentari siano in massa disponibili ad affrontare il risiko di un salto nel buio. Ma diciamo di più: non sappiamo quanto il paese nel suo complesso sia disponibile a dar man forte perché si introduca un meccanismo che metta il governo del paese nelle mani di una maggioranza certa ed omogenea.

Proprio il risultato del “cambiamento” che è arrivato con i risultati delle urne del marzo 2018 rende tutti i ceti dirigenti e le componenti almeno un minimo riflessive del nostro paese perplessi circa quel che succederebbe con un governo messo davvero sul trono. Abbiamo un sistema privo di autentiche tutele per le opposizioni, abituato a mettere in mano ai governi tutte le scelte per le posizioni apicali dei servizi pubblici (e s’è visto che nessuna forza si è mai fatta scrupolo dall’approfittare senza vergogna della prerogativa), bisognoso di un equilibrio di fronte ad una crisi strisciante che rischia di divenire endemica, equilibrio che non si vede quale forza politica possa garantire da sola (ci vorrebbero classi politiche mature, che al momento latitano).

Dunque temiamo che si resterà nell’incertezza e che il logoramento del tessuto connettivo della nostra società e della nostra politica andrà avanti. Magari a piccoli passi, forse con sussulti, ma andrà avanti.