Una nuova fase politica?
Cosa succederà mercoledì con le comunicazioni fiduciarie che Mario Draghi sporrà prima al Senato e poi alla Camera è oggetto di previsioni, se non addirittura di illazioni. La situazione è talmente caotica che si possono verificare scenari diversi. Però siamo in grado di vedere cosa è già successo: una grave crisi del nostro sistema di equilibri politici che sta mettendo all’angolo i partiti.
L’evento più rilevante è infatti a nostro avviso il movimento a sostegno di Draghi che si è manifestato da parte di quella società civile, per non dire di quel “popolo”, che i partiti hanno continuato ad interpretare a modo loro. La richiesta che l’attuale premier rimanga al suo posto per concludere il lavoro che ha impostato è venuta da una larga pluralità di istanze: da molta parte della stampa, dai sindacati e da Confindustria, dai rettori delle università, dalla Conferenza Episcopale e da una lunga serie di organizzazioni e agenzie sociali ed economiche. Qualcosa che chiaramente andava contro le aspettative di molti partiti che puntavano a far saltare l’esperimento di questo governo “tecnico” e di altri che pur volendolo salvare non avevano il coraggio di dirlo fino in fondo per non mettere in discussione quelle che ritenevano prospettive elettorali da preservare.
Le agenzie che esprimono e danno forma ai veri orientamenti popolari, che non sono quelli dei vari demagoghi che un tempo si sarebbero definiti alla Masaniello, hanno percepito con chiarezza il rischio a cui si stava esponendo il paese. Non solo privarlo di un autorevole governo in un momento delicato, ma mandare al diavolo la prospettiva di poter sfruttare le ingenti risorse europee che sono canalizzate nel PNRR. Il tutto per seguire quote di classe politica che si sono formate più nei dibattiti dei talk show che nel lavoro di costruzione di interventi in grado di far uscire l’Italia da una fase difficile.
L’andamento del confronto parlamentare di mercoledì 20 luglio non è ovviamente predeterminato, sebbene la decisione per il formato di comunicazioni del premier a cui seguiranno interventi dei capigruppo e infine un voto di fiducia per appello nominale faccia intendere la volontà di ottenere un chiarimento del quadro politico che i partiti dovranno affrontare a viso aperto davanti all’opinione pubblica. Tuttavia in linea teorica sarebbe anche possibile che Draghi semplicemente comunicasse le ragioni per cui intende recarsi subito al Quirinale per dimettersi senza attendere l’esito del dibattito. Se ciò accadesse, si sarebbero però verificati dei fatti traumatici nelle decisioni di uno o più partiti chiave, tali da rendere inutile la verifica in sede parlamentare. Sarebbe il caso per esempio di una decisione resa nota prima da parte di Conte e di M5S di votare la fiducia, ma di ritirare subito dopo i ministri passando all’appoggio esterno, oppure di una ribadita volontà da parte della Lega e di FI di non accettare una permanenza dei Cinque Stelle al governo. Scenari possibili, ma disastrosi, non solo perché porterebbero allo scioglimento della legislatura, ma ad una campagna elettorale infuocata e ad una qualche forma di governo di transizione che certo non sarebbe in grado di tenere bene sotto controllo la congiuntura attuale.
Più ragionevole (ammesso che la ragione conti ancora qualcosa nella nostra vita politica) un forte discorso di Draghi che metta in chiaro la richiesta di un sostegno convinto e compatto alle operazioni necessarie per reggere un possibile autunno critico, per tenere sotto controllo la pandemia e soprattutto per realizzare tutto quanto serve perché a dicembre arrivino da Bruxelles i 22 miliardi della nuova tranche dei fondi per il PNRR. A questo punto i partiti, tutti, saranno costretti a prendere un impegno solenne a rinunciare alle loro varie bandierine, a smettere l’attacco strumentale continuo all’esecutivo in cui pure la maggior parte di loro è inserita. Una decisione certo non semplice, perché comunque fra meno di un anno si andrà alle elezioni e nel frattempo ci sarà da scrivere una legge di bilancio che si dovrebbe mettere al riparo da tutte le richieste corporative tanto utili per raccattare voti.
Si discute se per far continuare il governo Draghi sia necessaria una replica pari pari dell’attuale semi-unità nazionale o se basti una maggioranza comunque ragionevole. Il premier sembrava convinto della necessità di puntare sulla prima ipotesi, ma lo sfarinamento dei Cinque Stelle, la difficoltà di considerare il loro leader Conte come una personalità capace di visione politica, hanno trasformato il quadro: oggi si potrebbe considerare la permanenza di M5S nella coalizione una prova della inconsistenza di quel “patto di fiducia” a cui Draghi ha fatto appello.
A noi sembra di poter dire che comunque si chiuda la crisi di questo governo avremmo visto la fine di una fase politica caratterizzata da due aspetti. Il primo è il populismo, spesso sfociato nella demagogia, che affonda sotto i colpi di una difficile congiuntura che non lascia spazio alle fughe fantasiose nelle varie utopie che sono fiorite negli ultimi decenni. Il secondo è il ridimensionamento definitivo dei partiti così come si erano ricomposti dopo il tramonto di quelli tradizionali della cosiddetta prima repubblica. Il trito bipolarismo destra/sinistra fondato sul reclamare i tradizionali steccati delle due componenti più o meno storiche non regge più, ma neppure quello che pensa di sfuggire a quel destino facendo rivivere miti come quello del “centro”.
Per una fase nuova occorrono un pensiero e un’azione politica nuovi. Evitando l’illusione che si possa risolvere tutto con il ricorso ai “tecnici”. C’è bisogno di interpretazione dell’evoluzione in corso: la tecnica servirà indubbiamente, ma non da sola e non ridotta al tecnicismo.