Un passaggio difficile: la nuova legge elettorale
Apertamente se ne parla poco, perché si stima che la gente non capirebbe un interesse in piena pandemia per una riforma della legge elettorale. Eppure è un passaggio fondamentale, non da ultimo perché potrebbe servire anche fra non troppo: se, come è possibile se non probabile, l’esperimento del governo di salute pubblica guidato da Draghi cesserà con l’elezione del successore di Mattarella, c’è a malapena un anno di tempo per arrivarci. Come tutti gli addetti ai lavori sanno, non è uno spazio temporale molto grande per un passaggio così impegnativo.
Data la situazione in cui ci troviamo sarebbe innanzitutto necessario arrivare ad una nuova legge con un ampio consenso, altrimenti poi si avranno risultati elettorali subito delegittimati dal sospetto che siano frutto di manipolazioni sfacciate anziché di un rilevamento credibile della volontà del paese. Un lusso che nelle condizioni della ricostruzione post-pandemia non possiamo permetterci. Peraltro andare al voto col sistema attuale dopo aver varato una disinvolta riduzione dei parlamentari sarebbe poco sensato: il mix di uninominale secco e di proporzionale a fronte di una geografia politica in ebollizione e di un numero ristretto di seggi da mettere in palio aprirebbe dovunque lotte intestine che non porterebbero bene.
Il dibattito che si era sviluppato più o meno sino all’autunno scorso e che aveva anche portato ad una bozza di soluzione non sembra più in grado di reggere. Allora si puntava su un sistema di tipo proporzionale con uno sbarramento di qualche significato (forse anche il 5%), ma ciò derivava da una valutazione che oggi è discutibile: che ci fosse lo spazio per valutare la tenuta in termini proporzionali dei principali partiti, che avrebbero corso ciascuno per proprio conto, per lasciare poi agli eletti il compito di formare le maggioranze capaci di dar vita ad un governo. Poteva funzionare, forse, se non ci fosse stata necessità di spostare sui cittadini l’onere di indicare un certo tipo di equilibrio politico, considerando che in fondo più d’uno si equivalesse sostanzialmente, sicché era opportuno lasciare ai partiti la possibilità di determinare poi le loro disponibilità a coalizzarsi.
Nel quadro di una congiuntura che chiederà di uscire dagli sconquassi provocati dalla pandemia e sperabilmente di gestire efficacemente i 191 miliardi che ci attendiamo dalla UE non parrebbe saggio fidarsi delle incertezze che consente un regime proporzionale. Preferibile invece che i cittadini elettori si assumano la responsabilità di scegliere sulla base di programmi di governo chiari e alternativi, ma in mano a forze che possano ambire a raccogliere il consenso sufficiente per governare. Per dirla chiaramente: questo si rende possibile solo con un confronto fra coalizioni che possano competere per raggiungere la maggioranza dei seggi (in sostanza un confronto fra due coalizioni), che sarebbero obbligate, si spera, a presentare con chiarezza agli elettori sia i rispettivi programmi, che, almeno parzialmente, le squadre a cui affidarne la realizzazione.
Fra i partiti ci sono ancora resistenze, specie da parte di quelli minori, a promuovere un quadro di questo tipo, mentre ci sembra cresca il favore presso la popolazione. Tuttavia è una soluzione che presenta molte variabili. Il meccanismo maggioritario secco (vince nei collegi uninominali chi prende anche solo un voto in più di quello che arriva secondo) favorisce una certa indipendenza degli eletti rispetto alle “bandiere” sotto cui si presentano. Può sembrare in astratto una bella cosa, in realtà può diventare una premessa alle transumanze parlamentari (ogni eletto si posiziona poi come vuole) da cui i partiti tenderebbero a cautelarsi candidando di preferenza delle persone di apparato. Neppure i meccanismi su collegi plurinominali, sia con liste bloccate, sia con la previsione di preferenze, garantiscono una buona selezione della classe politica.
Infatti se il problema è determinare uno scontro fra coalizioni, si assisterà al sorgere di due problemi. Da un lato la distribuzione dei collegi fra le varie appartenenze diventerà materia di negoziato fra i partiti della coalizione, ciascuno portatore di una capacità di ricatto perché se si ritira mette a rischio la possibilità di vittoria della coalizione. Dall’altro lato cedendo a queste dinamiche negoziali fra i partiti si avranno candidature che potranno essere in più di un caso non adeguate (una storia già vista), ma inoltre si avrà una difficoltà per gli elettori di una o più componenti della coalizione per votare il candidato imposto da quella parte non omogenea al loro sentire. Anche questa una storia già vista che in tempi di liquidità delle affiliazioni politiche può diventare fortemente distorsiva.
Da queste considerazioni conseguirebbe, a parere di chi scrive, l’opportunità di studiare un meccanismo in cui la scelta della coalizione a cui affidare il governo venisse rinviata ad un secondo turno, a meno di un successo molto netto nel primo, tipo la raccolta del 45% dei suffragi. Naturalmente il meccanismo va studiato nei dettagli e qui non possiamo che limitarci a schematizzare un principio. Al primo turno ci sarebbero coalizioni che si presentano come tali agli elettori, con programma unico e una squadra almeno embrionale di presidente del consiglio e ministri principali, ma ogni partito correrebbe per sé stesso in modo da consentire l’emergere di una fotografia abbastanza precisa del consenso elettorale che ciascuno può raccogliere (e forse così si potrebbe anche superare il problema di soglie di sbarramento alte). Ove nessuna coalizione raggiungesse il 45% dei consensi, si andrebbe ad un secondo turno di ballottaggio in cui si confronterebbero solo le due coalizioni meglio piazzate e si voterebbe solo a livello nazionale la lista con l’indicazione del primo ministro e dei candidati ministri più importanti. Ci sarebbe la possibilità per partiti che non si sono coalizzati al primo turno di entrare nelle coalizioni presenti, ma non di fondarne di nuove. La coalizione vincitrice del ballottaggio avrebbe naturalmente una distribuzione dei seggi che gliene assegnerebbe il 55% in ciascuna delle due Camere (perché il problema di un sistema di ballottaggio su due Camere qualche problema lo pone: il modello dell’elezione dei sindaci e dei presidenti di regione non ha ovviamente a che fare con un sistema di tipo bicamerale).
Ci rendiamo ben conto che ci sono molti problemi tecnici da studiare in dettaglio, a cominciare dalla legittimità di ledere il potere del Presidente della repubblica di conferire l’incarico della formazione del governo e quello del presidente incaricato di scegliersi i ministri. Si tratta però di due poteri che in verità, salvo casi emergenziali come quelli recenti, sono stati più teorici che reali (e che varrebbero solo per l’immediato incarico dopo le elezioni, mentre nel caso di caduta del governo eletto è da vedere se optare per lo scioglimento automatico della legislatura o per procedere come oggi).
Ciò che vediamo come della massima importanza è che si avvii al più presto una seria riflessione su come dotare il Paese di una legge elettorale che consenta una stabilizzazione politica, con maggioranze che possano governare, e minoranze che possano davvero esercitare funzioni di controllo. Non possiamo guardare con indifferenza e superficialità alla attuale situazione che ha visto uno sconvolgimento del nostro “sistema politico” come non possiamo lasciare tutto nelle mani degli apprendisti stregoni che giocano coi sistemi elettorali, perché abbiamo visto anche troppo bene dove si va a finire.
di Paolo Pombeni
di Francesco Provinciali *