Un nuovo PD?
Enrico Letta nel suo discorso di investitura ha esplicitamente affermato che serve un nuovo PD ed ha ragione. Si può ammorbidire l’affermazione parlando di una nuova fase di questo PD, ma cambia poco. Il problema centrale è che bisogna arrivare a decidere davvero cosa quel partito vuole fare da grande, perché ormai ha esaurito la sua fase adolescenziale. Generato dall’insostenibilità del progetto del PDS – DS che era incentrato su una trasformazione del PCI post-Berlinguer, una volta venuta meno la palla al piede del riferimento al “comunismo”, e dalla mancanza di una “casa” per la tradizione del progressismo cattolico, il PD di Veltroni ha provato ad essere un partito “di visione” affidandosi per lo più al professionismo politico espresso dalle due filiere di provenienza.
Non poteva funzionare, perché è subito venuta meno la “vocazione maggioritaria”, che non era il puntare ad ottenere l’investitura elettorale sufficiente per governare da solo (tanto è vero che cadde subito nella trappola sciagurata di fare una alleanza senza senso né nerbo col partitastro di Di Pietro), quanto piuttosto il provare ad esercitare l’egemonia sulle forze che puntavano al famoso “cambiamento” nel sistema politico italiano. Non c’erano abbastanza idee per quello, né erano maturi i tempi. C’era ancora in giro l’illusione che il futuro potesse essere “conquistato” a buon prezzo, bastava mandare tutto e tutti al diavolo. Grillo sfruttò il vento, per un partito che voleva farlo dal governo era impossibile (e infatti se ne sarebbero accorti anche i Cinque Stelle una volta giunti sulle tanto disprezzate poltrone).
Adesso i tempi per la grande avventura sarebbero maturi, perché è arrivato l’evento imprevisto di una terribile pandemia che ha costretto tutti a capire che il mondo cambierà, ma non nei modi sognati da quelli che pensavano si potesse tornare ad una specie di Arcadia 2.0. L’epidemia di Covid ha mostrato che per governare ci vogliono tecnici e non politici improvvisati, tanto che i partiti hanno dovuto mettersi al servizio di un grande tecnico. Altrettanto mette in crisi i mantra sulle vecchie ideologie, perché la gente non crede più alle formule magiche di destra o di sinistra che siano, ma chiede risposte specifiche e fattibili a problemi specifici e concreti.
Enrico Letta si prenda carico di traghettare il PD su queste nuove sponde e lo fa forte di una esperienza al cuore dei luoghi dove si sta discutendo di dove va il mondo. Non è poco. Poi però nella sua comprensibile ansia di rispondere alle aspettative che ha suscitato è scivolato anche lui nel gioco delle grandi visioni, senza darsi la possibilità di mettere in campo alcune proposte molto performanti e indirizzate a risolvere problemi concreti.
Non lo è certo la prospettiva di dare il diritto di voto ai sedicenni. Non solo per le difficoltà tecniche e per la assenza al momento di una agibilità parlamentare per proposte simili, ma perché finge di ignorare un problema fondamentale: in una società come la nostra priva di filiere di formazione, con percorsi di acculturazione molto precari (e in parte inquinati) che senso ha immettere una quota di elettorato “non maturo” per un compito delicato come è la scelta di coloro a cui affidare il futuro di una società che affronta problemi enormi?
Lasciamo da parte la questione del cosiddetto ius culturae, cioè la concessione della cittadinanza ai giovani immigrati che abbiano compiuto presso di noi un iter formativo (essenzialmente scolastico) e una esperienza di inserimento significativa. La proposta è ragionevole e sensata, se però non la si riduce a slogan sottovalutando quante resistenze incontri nella società. Può andar bene per far cadere il solito Salvini nella provocazione e così certificare ai militanti che si è nello stesso governo, ma da avversari decisi (sai che guadagno), non per mostrare quanto si sia capaci di incidere sulle paure di questo momento, perché è una operazione che non richiede slogan, ma articolazioni e pazienza.
Soprattutto il problema centrale è che Letta se vuole portare ad un nuovo PD deve lasciar perdere quella che è la fissazione di tutte le sinistre dagli anni Trenta del secolo scorso ad oggi: la grande alleanza con tutti quelli che si possono genericamente definire come avversari delle destre. Le ammucchiate o falliscono o non servono: senza andare troppo indietro, basta ripercorrere la storia dell’Ulivo prima e dell’Unione poi per vedere che è roba che dura qualche dozzina di mesi e poi salta, basta un Bertinotti, un Turigliatto, un Mastella, non è che ci voglia l’impatto del conte De Maistre o il ritorno del fascismo.
Oggi la sinistra non è affatto un “campo” unanime. Il presidente dell’Emilia Stefano Bonaccini ha buttato lì che si deve fare una grande alleanza da Elly Schlein a Calenda, peccato che faccia finta di non sapere che sono due prospettive incompatibili. Tutto si può comporre, ma bisogna partire dal verificare se entrambi (e tutti quelli che stanno in mezzo) sono disponibili a cambiare idee, roba che in politica è molto difficile. E facciamo finta, perché non è affatto così, che dentro il PD ci sia davvero un idem sentire quando si passa dal prospettare qualche “massimo sistema” al confronto sui problemi veri. Tanto per dire: sulla crisi dell’ILVA si sta con Emiliano o con Bentivogli?
Letta vuole aprire delle “agorà” perché ci sia un luogo dove confrontarsi. Ottima idea, lo diciamo convinti. A patto che si discuta di temi veri e si abbia il coraggio di “dirsi la verità”, perché quando si affronterà il tema del giustizialismo grillino, della riforma del welfare che non può tenere in piedi tutti i privilegi del passato, della rivoluzione verde che vuole gli inceneritori e non i monopattini elettrici, e avanti così, dirsi la verità sarà rivoluzionario (la citazione è variamente attribuita: Letta a Man Ray, secondo altri a George Orwell, chi scrive ricorda che il prof. Federico Mancini la scrisse attribuendola a Gramsci sulla lavagna in un’aula dell’università di Bologna durante un dibattito con noi studenti nel mitico 1969).
di Luca Tentoni
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di Francesco Domenico Capizzi *