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11 dicembre 2024
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Trump come Nixon? Russiagate, Watergate e i tanti dubbi dell’impeachment

Gianluca Pastori * - 21.06.2017
Russiagate

Nelle ultime settimane, le vicende legate al c.d. ‘Russiagate’ (la presunta interferenza di Mosca nelle ultime elezioni presidenziali statunitensi in favore di Donald Trump) hanno vissuto più di una accelerazione. In particolare dopo il licenziamento dell’ex Direttore dell’FBI, James Comey, il Presidente Trump appare sotto attacco, anche attraverso una serie di indiscrezioni di stampa che, in modo più o meno velato, ventilano la possibilità di una sua messa in stato d’accusa. Questa possibilità acquista un appeal particolare in questi giorni. Il 17 giugno 1972, infatti, l’arresto di cinque uomini sorpresi nel tentativo di penetrare nei locali del comitato nazionale democratico presso l’Hotel Watergate di Washington apriva la porta allo scandalo che poco più di due anni dopo (8 agosto 1974) avrebbe portato alle dimissioni di Richard Nixon. Nelle ultime settimane, i paragoni fra Trump e Nixon, si sono sprecati, con la stessa espressione ‘Russiagate’ a richiamare un parallelo che – negli Stati Uniti e fuori – resta sempre evocativo. E’, tuttavia, ancora da capire se le due situazioni siano effettivamente paragonabili. Si tratta inoltre di capire il significato effettivo di un atto come la messa in stato d’accusa del Presidente, che, al di là delle sue implicazioni giuridiche, ha una natura essenzialmente politica. Il margine di discrezionalità che presiede alla definizione delle fattispecie che possono condurre alla messa in stato d’accusa è, infatti, estremamente ampia; uno stato di cose che permette a considerazioni di vario tipo di influire sia sulla decisione presa a maggioranza semplice della Camera di Rappresentanti di attivare la procedura di impeachment sia sul giudizio finale che il Senato – riunito in alta corte di giustizia – è chiamato a dare a maggioranza qualificata sui quesiti che gli sono sottoposti.

L’operare di questo meccanismo è evidente dietro tutti i casi di impeachment che hanno seguito quello di Andrew Johnson nel 1868. Nemmeno in questo caso (in cui pure vi era una sostanziale convergenza intorno alla volontà di allontanare il Presidente dal potere) si è giunti al voto di condanna. Chiaramente, già l’apertura della procedura rappresenta un segnale forte; tanto forte da spingere Nixon alle dimissioni, anche se in questo caso un ruolo non irrilevante è stata la sostanziale certezza di un voto di condanna, certezza emersa nei colloqui avuti del Presidente con il decano dei delegati repubblicani, Barry Goldwater, e con gli speaker del partito nelle due camere, Hugh Scott e John J. Rhodes. L’esistenza di prove ritenute inconfutabili delle responsabilità di Nixon giocò anch’essa una parte nell’indirizzare la vicenda verso il suo epilogo, così come una parte fu giocata dalla convinzione dei due partititi di potere trarre un beneficio – o, per i repubblicani, di minimizzare i danni – dalle dismissioni del Presidente. Da questo punto di vista, quello del Watergate rappresenta un unicum che non ha trovato seguito negli anni seguenti. Le vicende che hanno avuto per protagonista Bill Clinton nel 1999, al contrario, sembrano confermare la possibilità per un Presidente popolare di superare (anche se non del tutto indenne) il voto di un Senato potenzialmente ostile come quello che si è espresso sulle questioni legate all’affaire Lewinski. Lo stesso vale per i vari tentativi (falliti) di porre in stato d’accusa George W. Bush (soprattutto in relazione al tema della guerra in Iraq, ad esempio con la risoluzione Kucinich-Weller del 2008) e Barack Obama, ad esempio sulla questione dell’attacco alla rappresentanza diplomatica di Bengasi del 2012 che ha portato alla morte dell’ambasciatore Chris Stevens.

Donald Trump oggi si trova, dunque, in una situazione simile a quella in cui si è trovato Richard Nixon ieri? Al di là delle suggestioni che l’accostamento offre, esso appare, per più di una ragione fuorviante. Nonostante l’elevato grado di polarizzazione, lo scenario politico attuale è assai diverso rispetto a quello di quarantacinque anni fa. Egualmente, le dichiarazioni (non prive di ambiguità) di James Comey durante la sua audizione alla commissione intelligence del Senato non possono essere paragonate alla ‘smoking gun’ di Nixon. Né le dimissioni, né la destituzione d’ufficio del Presidente possono, inoltre, sanare le fratture che attraversano sia il Partito democratico sia quello repubblicano. In questo senso, nessuna delle parti sembra trovare nell’eventuale impeachment di Trump un vantaggio politico che valga la pena di correre. Per certi aspetti, l’attuale situazione d’incertezza giova a tutte le parti; al Partito democratico, che nell’antitrumpismo trova l’antidoto principale alle fratture evidenziate durante l’ultima campagna elettorale, così come a quello repubblicano, per il quale l’azione di un Trump ‘sotto scacco’ risulta più facile da gestire rispetto a tutta una serie di punti critici, per primo proprio quello della détente con Mosca, che all’interno del partito provoca più di un malcontento. Il dubbio riguarda quello che Trump deciderà di fare. L’attuale stato di cose pare essersi tradotto nel sostanziale stallo dell’azione dell’amministrazione sui dossier davvero qualificanti; una situazione che – come emergere dietro le dichiarazioni della Casa Bianca riguardo alla ‘caccia alle streghe’ lanciata contro il Presidente – offre abbondantemente il fianco agli attacchi di Trump contro l’inconcludenza della ‘politica politicante’ e i suoi costosi giochi sulla pelle del contribuente americano.

 

 

 

 

* Gianluca Pastori è Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.