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Troppi personaggi in cerca di autore

Stefano Zan * - 22.02.2020
Meloni, Renzi e Salvini

Le fibrillazioni nella maggioranza, culminate con l’intervento di Renzi a “Porta a Porta” (con tanto di rilancio della Grande riforma costituzionale, in un Parlamento balcanizzato dove è già difficile trovare un’intesa sulle semplici leggi ordinarie) sono ancora oggetto di sorpresa e di dibattito, come se il quadro non fosse noto già dal momento dell'insediamento dell'Esecutivo, esattamente come avvenne con la coalizione gialloverde, anch'essa affetta fin dall'inizio da ciò che l'avrebbe portata alla dissoluzione. Per funzionare, una maggioranza deve essere coesa e protesa a limare le differenze, anziché accentuarle: in sintesi, tutti i componenti debbono accettare la convivenza come il presupposto per realizzare politiche di interesse generale (o, almeno, quelle comuni ai partiti alleati). Il calcio, che dall'avvento di Berlusconi ("Forza Italia!") è diventato la metafora principale della politica nazionale, ci insegna che una squadra può essere composta da grandi campioni, ma che se ognuno gioca solo per mettersi in mostra, senza sacrificarsi per il gruppo, non solo non si vince nulla, ma si va incontro a grandi disastri. La bravura di chi entra a far parte di una coalizione sta dunque nel saper cogliere ciò che unisce, senza naturalmente annullare la propria personalità ma senza metterla al di sopra di tutto il resto. Le coalizioni di questa legislatura (per tacere di alcune delle precedenti) non sono mai state vissute da tutti i componenti come cooperative, ma - nella migliore delle ipotesi - come compromissorie, se non - molto spesso - come competitive (all'interno, non all'esterno). Il "contratto" gialloverde servì proprio a mettere le basi di una convivenza compromissoria: ad ogni proposta approvata cara ai Cinquestelle ne doveva corrispondere una voluta dalla Lega. Lo scambio era talmente palese che andava in scena nelle Aule: a Palazzo Madama si votava un provvedimento del M5s, a Montecitorio uno leghista. Anche il compromesso, però, è ben presto saltato, perché uno dei soci ha capito di poter cannibalizzare l'altro: acquistando visibilità, incalzando l'alleato-avversario su più fronti, Salvini è riuscito a togliere ai pentastellati circa la metà dei loro voti in un solo anno. Il problema è che, compreso di aver fatto il pieno dei consensi acquisibili, il leader leghista ha pensato di andare alle elezioni per capitalizzarli. Tuttavia, tornando al calcio, neanche sui campetti di periferia c'è l'usanza che quando una squadra vince, il capitano prende il pallone e se lo porta via, ponendo fine all'incontro. Se lo fa, può aspettarsi la reazione dell'altra squadra. Il secondo governo Conte è nato così: facendo entrare in campo un'altra squadra al posto di quella che aveva voluto porre fine alla partita. L'attuale maggioranza è nata per necessità, non per "virtù" (come la prima, del resto), cioè per governare, non per affinità politiche e progettuali. Rispetto alla precedente, ha evitato di riproporre il modello pattizio, ma ha preferito cercare il compromesso sui minimi comuni denominatori. Ogni tentativo di spostare i rapporti sul piano della cooperazione è puntualmente fallito: dopo le elezioni in Umbria, ma già prima, al momento del giuramento, quando si è (non casualmente, ma - dal punto di vista di chi l'ha cagionata - opportunamente) verificata la scissione del Pd; si è passati, quasi subito, ad una competizione feroce fra gli alleati. I pentastellati, che secondo i sondaggi sono sotto il 15% dei suffragi, cercano disperatamente di risalire la china, quindi provano a resistere sui temi che hanno fatto la loro fortuna, ma si trovano fra l'incudine di chi non può rompere (altrimenti si va a votare, con la conseguente decimazione dei gruppi parlamentari) e il martello di dover fare concorrenza a tutti i soggetti (Pd in primo luogo) che possono sottrarre loro voti "di frontiera". All'estremo opposto della coalizione c'è Italia viva, che ha l'esigenza di aumentare i consensi (finora non abbastanza soddisfacenti) e, come il M5s, evitare elezioni anticipate che (con la legge vigente) potrebbero riportare in Parlamento pochi degli attuali deputati e senatori. In mezzo c'è Conte, che - non essendo neanche più un potenziale leader di riserva dei Cinquestelle - si ritrova a dover salvare il suo governo, adottando una politica di mediazione che però talvolta pare rasentare il piccolo cabotaggio. In quanto alle operazioni di allargamento della maggioranza (come insegnano i governi di centrosinistra nel 1998 dopo Prodi, quelli di centrodestra nel 2010 dopo l'uscita di Fini, infine ancora quelli di centrosinistra nel 2013-'18, con apporti dal centrodestra) è sempre bene ricordarne i limiti, oltre ai vantaggi. Inoltre, si tratta di manovre che non si preannunciano, ma - se si ha la capacità per farle - si realizzano in poco tempo, prima che qualcuno possa adottare le necessarie contromisure. Va anche aggiunto che in una coalizione coesa, nella quale tutti hanno come scopo quello di cooperare, non si arriva mai al punto di pensare di sostituire un alleato "vivace", semplicemente perché nessuno tira la corda per saggiare la capacità di cedimento altrui. Si dirà che la politica è anche conquista del consenso e del potere (forse più del primo che del secondo, magari), però è anche vero che non si può scambiare il mezzo (i voti, il governo) con il fine (un programma di ampio respiro, la visione del futuro, il bene del Paese). Questa legislatura è nata male: forse sarebbe stato bene interromperla subito, al termine del primo giro di consultazioni, nel 2018. Due anni di governi multicolori, fra alleati-nemici e tensioni continue (aggravate dall'alta volatilità elettorale, che - diversamente rispetto alla Prima Repubblica, quando tutto era quasi fermo - incoraggia il movimento e la conflittualità, oltre alla facile ricerca del dividendo nelle urne) hanno fatto cadere ogni steccato, ogni preclusione: oggi chiunque (o quasi) può allearsi con partiti molto distanti dal proprio, pur di governare. Oppure, può chiamare le elezioni al momento opportuno, solo per convenienza della propria parte politica, perché "così fan tutti". Siamo in una via senza uscita: se "tirare a campare" non è possibile e neppure auspicabile, non lo è neppure andare alle urne in un quadro confuso e teso, così come è surreale pensare ad un miracoloso e largo “accordo costituente” fra i maggiori partiti. Non si può assistere a lungo ad una conflittualità permanente (che pare affacciarsi anche nel centrodestra, fra Lega e Fdi) alimentata solo in parte da dissensi programmatici e molto dalla necessità di avere la meglio sugli alleati nella continua guerra di posizione per la conquista dell'elettorato "volatile".

 

 

 

 

* E' stato docente universitario di Teoria delle organizzazioni. Il suo blog è ww.stefanozan.it