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Trasformismi

Fulvio Cammarano * - 03.02.2021
Depretis

Se ci fossero ancora gli strilloni che vendono i giornali in strada, sentiremo urlare ovunque: “Ultim’ora! Cade il governo per mancanza di trasformisti!”. Ma come? Dopo tanta, prolungata retorica, sulla natura trasformistica del nostro Paese, proprio adesso nel momento più cruciale della storia degli ultimi anni, non si trovano questi politici sempre disposti a passare da una parte all’altra? E’ noto che il tema su cui molti negli ultimi anni hanno insistito per denigrare il sistema politico italiano è stato quello dei cosiddetti “cambi di casacca”, in riferimento ai passaggi da una formazione partitica all’altra da parte di molti rappresentanti politici. E’ stato dimostrato, numeri e percentuali alla mano, che questo fenomeno non conosce colore politico e non si ferma di fronte ad alcun ostacolo. Quando fa comodo se ne usufruisce, quando non ci riguarda lo si condanna, approfittando della ormai comprovata memoria breve dell’elettorato.  Condanne e anatemi si abbattono su questa attitudine che però è un’altra cosa rispetto al più complesso fenomeno del trasformismo. La crisi attuale, come è noto, è anche l’esito di un sistema, quello proporzionale, che gli italiani hanno scelto per dare più rilevanza al ruolo della rappresentanza rispetto a quello della governabilità pur sapendo che il proporzionale per sua natura accentua la frammentazione e le divisioni della rappresentanza politica. Il nostro bisogno di ordine mentale tuttavia pretende che il pluralismo, a cui ovviamente non vogliamo rinunciare, sia sempre accompagnato da posizionamenti chiari, fedeltà, coerenza. Una strana pretesa, non c’è che dire, da cui ha origine la riprovazione se non proprio lo sdegno per il cosiddetto trasformismo, qualunque cosa significhi. Il termine ha da sempre una connotazione negativa, a prescindere, si potrebbe dire. In realtà il concetto paradossalmente nasce, nel sistema politico ottocentesco, con un’accezione positiva: se nel mondo fisico tutto si trasforma, si diceva, perché lo stesso non dovrebbe valere in quello politico? In realtà il trasformismo, che esordì subito come occasione di conflitto molto concreta, al di là delle dispute politologiche o intellettuali, divenne la parola utilizzata per descrivere e condannare una precisa modalità di gestione del confronto politico, quella della convergenza verso il Governo di tutte le forze “sensibili” al tema della salvezza della patria in difficoltà, a prescindere dalla loro collocazione ideale. Il tema oggi sembra ripresentarsi con gli stessi accenti, ma, a differenza dell’ultimo ventennio del XIX secolo, all’interno di un Parlamento organizzato in partiti. Quali partiti, però? Certo non più quelli novecenteschi dal credo politico solido e capace di generare fedeltà stabili. Molti degli attuali parlamentari ora “abitano” in formazioni che si collocano in spazi politici ibridi, poco propensi alle identità ideologiche vincolanti. Un altro aspetto da tenere presente è l’ambiente in cui si svolgono i processi di confronto e di scambio tra forze politiche: il campo di tensione dello spazio del governo, ad esempio, è molto diverso da quello dell’opposizione ed è quasi sempre in grado di curvare la posizione anche della più rigida delle forze parlamentari in nome della responsabilità o della conservazione del potere. In questo senso si dovrebbe parlare tecnicamente di trasformismo solo nel momento in cui un governo prova a convincere settori dell’opposizione a rafforzare stabilmente la maggioranza esistente, che appare fragile oppure in grado di condizionare pericolosamente l’esecutivo, al fine di garantire maggiore stabilità in fasi presentate come esiziali per la nazione. Il trasformismo produce, nel momento in cui s’impone, non solo un nuovo, più solido, centro politico che ruota attorno al governo ma anche l’”emarginazione” delle ali estreme che non aderiscono. Cambiare partito, idee, schieramenti al di fuori dell’ambiente descritto non sono, invece, attività che hanno a che fare con il trasformismo. Per questo si può dire che l’ultimo discorso in Parlamento del presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stato un effettivo appello trasformista esattamente come quello del suo collega Agostino Depretis nel 1883: Conte e Depretis in contesti diversi hanno presentato un programma progressista per la salvezza del Paese, invitando chiunque lo condividesse, a destra o sinistra, a sostenerlo. “Costituzionalmente – aveva ricordato Depretis 138 anni fa - io debbo chiedere l’approvazione della Camera e non posso e non debbo respingere l’appoggio di coloro che, pur essendo stati nostri antichi avversari, intendono ora di prestare al Gabinetto attuale il loro appoggio incondizionato”. Scopri le differenze, ci domanderebbe la ‘Settimana Enigmistica’! Solo che a Depretis l’operazione trasformistica è riuscita e a Conte no. Che significa? Innanzitutto che dobbiamo smettere di ripetere parole vuote e ritornelli scontati, a conferma che senza consapevolezza storica e lessicale, la politica si riduce ad una scatola vuota, buona per ogni demagogia. Il fallimento, di fatto, del tentativo apertamente trasformistico di Conte dimostra dunque che, nonostante alcune condizioni favorevoli, tutta questa “deriva” trasformistica, così drammaticamente annunciata, non esiste, sia per chi la auspica sia per chi, e sono i più, la depreca. Le ipotesi per cui tale slavina, presentata sotto forma di dilagante degrado politico, non si è verificata hanno a che fare con le valutazioni personali e politiche dei parlamentari, come è ovvio e naturale che sia. Se cospicue frange del centro politico non si sono fatte attrarre dal messaggio di Conte, il motivo va cercato nel calcolo del valore dell’offerta di entrare nella attuale maggioranza, considerato minore rispetto al vantaggio di attendere le non lontane elezioni che si annunciano favorevoli alla presente opposizione. Nel complesso dunque bisogna prendere atto che, evidentemente, non è così scontato passare dai banchi dell’opposizione a quelli del governo e, in seconda battuta, che tale eventuale passaggio, ovviamente se è in funzione di una scelta politica e non, come pure è spesso capitato, di una manovra corruttiva, farebbe parte di una legittima logica politica e costituzionale su cui dovremmo riflettere senza strapparci le vesti dato che, tra l’altro, non è improbabile che la percentuale dei parlamentari “trasformisti” rispecchi quella degli elettori che hanno cambiato convincimenti, anch’essi realtà sempre più mobile in un’epoca in cui il cambiamento di posizione risulta sempre meno un tabù. I sondaggi, in fondo, riportano le opinioni dei cittadini, ma non ci dicono se quelle opinioni sono il frutto di un ripensamento rispetto al momento del voto. Non c’è una morale, ma considerazioni di buon senso: come è legittimo che alcune forze politiche abbandonino il sostegno al governo, la stessa legittimità deve essere concessa al governo quando cerca di attrarre nella propria orbita formazioni, gruppi e singoli, originariamente all’opposizione. Il primo caso è ritenuto teoricamente virtuoso perché sembra ci si stia allontanando dal potere, mentre il secondo è riprovevole perché ci si avvicina. Ma dal punto di vista dell’interesse complessivo della comunità nazionale, se gli spostamenti avvengono sulla base di valutazioni di opportunità politica e non di mercimonio, tale considerazione appare sterilmente moralistica. Che ci sia, a fronte di una coalizione di maggioranza non troppo solida e concorde, un timore per una tendenza all’instabilità continua è comprensibile, ma non può lamentarsi quella leadership politica che, tuonando contro il trasformismo solo quando “fa comodo”, lascia intendere di essere preoccupata non per il Paese ma più prosaicamente per il pericoloso sbandamento delle proprie file. Per ora il mancato trasformismo ha impedito la prosecuzione dell’esperienza del governo Conte. E’ un fatto positivo o è negativo? Dipende dalle opinioni, ma certo dobbiamo cominciare a pensare, nel parlamento del XXI secolo, che il trasformismo sia ormai da considerarsi un fatto politico e non etico, né più né meno del mancato trasformismo.

 
 
 
 
* Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bologna