Smontare questa UE e ripartire dalla CED (e da Raqqa)
L’indebolimento dei ceti medi e la crisi morale delle nostre democrazie; il disordine mediorientale e l’insorgenza del totalitarismo jihadista; il revisionismo della Russia rispetto all’assetto post-guerra fredda e il crescente isolazionismo USA. E, su tutto, la prospettiva angosciante, ma non irrealistica, che le luci possano tornare a spegnersi sull’Europa, che una nuova età di ferro e di fuoco si stia preparando. Di tutto questo, a sentire i vari leader, dovrebbe occuparsi l’Unione europea. E invece tutte le energie saranno impegnate, per gli anni a venire, in un defatigante negoziato sull’uscita della Gran Bretagna. Non si può andare avanti così.
Ma come si è arrivati a questo punto? Occorre avere il coraggio di dire alcune verità. Ormai da molti anni, i cittadini degli Stati membri, ogni volta che sono consultati, immancabilmente si esprimono contro l’Unione. Se a lungo il principale merito dell’Unione è stato lo sviluppo di una forte solidarietà tra le nazioni europee, le ultime evoluzioni del processo di integrazione sono divenute motivo di divisione e di frattura (si pensi all’Euro e all’area Schengen). I miei amici federalisti hanno una risposta a questo problema: si è rimasti in mezzo al guado, occorre dotare di poteri federali l’Unione e il Parlamento europeo e tutto si risolverà. Certo gli argomenti a favore di questa tesi non mancano ed è innegabile che l’Unione sia usata come comodo capro espiatorio da irresponsabili classi politiche nazionali. Ma si deve anche riconoscere che i poteri dell’Unione, e anche quelli del Parlamento europeo, sono costantemente aumentati in questi due decenni ma non per questo i cittadini hanno percepito l’esistenza di una democrazia sovranazionale europea (si è perfino giunti ad una designazione popolare indiretta del presidente della Commissione europea: a contendersi il posto sono state, nel 2014, le due scialbe figure di Juncker e di Schulz: se ne è accorto qualcuno?). E’ vero che insieme si è indebolito il ruolo della Commissione europea e si è rafforzato quello del Consiglio europeo, composto dai Capi di Stato e di governo. Ma anche questo conferma il fallimento del funzionalismo di Monnet, ancora alla base dell’Unione, che non riesce, come aveva rilevato lo studioso Stanley Hoffmann recentemente scomparso, a realizzare, in modo automatico il passaggio dalla low politics (la gestione del mercato unico) alla high politics (la politica estera, la difesa, le politiche di bilancio): quasi inevitabilmente, superato un certo livello di integrazione, le istituzioni comuni cedono il passo a governi nazionali forti di una chiara legittimazione democratica. Nuove competenze, insomma, ma gestite in un confuso condominio (“governance”, la chiamano, che è cosa altra rispetto al governo democratico) tra vertici governativi, tecnici di Bruxelles e Parlamento europeo privo del necessario sostegno di uno “spazio pubblico europeo”. E così oggi l’Unione ha ben poco degli ideali di Spinelli, peraltro inizialmente critico nei confronti della CEE, e molto di quelli di Alexandre Kojève, con il suo sogno di una fine della storia tecnocratica (e non a caso il filosofo, che era anche alto dirigente della pubblica amministrazione francese, partecipò alla costruzione della CEE e della politica agricola comune). E a partire da questa struttura è ben difficile, bisogna riconoscerlo, costruire qualcosa di nuovo.
E allora che fare? Nello spazio di questo articolo posso lanciare solo tre suggestioni. La prima: rileggere Cuoco e la sua critica dell’astrattismo. La seconda: lasciare all’Unione e alla Commissione europea quello che sanno fare meglio, la gestione del mercato unico (da sottoporre però rapidamente ad una radicale semplificazione e deregolamentazione) e costruire a fianco della UE, coinvolgendo i soli Stati fondatori, una organizzazione sovranazionale nuova, o meglio antica; basterebbe infatti riprendere il trattato della Comunità europea di difesa (CED), integrato dal progetto di comunità politica elaborato dall’Assemblea ad hoc voluta da De Gasperi e Spinelli (alle competenze previste nel ’54 bisognerebbe aggiungere l’intelligence e il controllo delle frontiere esterne); in questo modo si ripartirebbe dalla politica. La terza, e non sembri una digressione: liberare il più rapidamente possibile Raqqa e Mosul, le capitali del Califfato, andare là e andare nei campi profughi del Kurdistan per raccogliere le prove del genocidio di cristiani e yazidi e degli altri crimini commessi e per aprire, come stanno tentando di fare la Federazione delle Chiese evangeliche e la Comunità di Sant’Egidio, i corridoi umanitari in modo che i rifugiati possano arrivare in Europa in condizioni di sicurezza. Per scoprire che i “valori europei”, cristiani e illuministi, possono ancora portare soccorso ad un’umanità dolente.
* Bernardo Settembrini è uno studioso di storia contemporanea.
di Bernardo Settembrini *
di Vanja Zappetti *