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Si fa presto a parlare di riformismo

Paolo Pombeni - 27.10.2021
Giolitti Riforme

Sembra che stia tornando di moda il riformismo, eterno fantasma che vaga nei territori della lotta politica. Forse si è capito che ridurre il bipolarismo fra destra e sinistra al desueto scontro fra generici fascisti ed altrettanto generici antifascisti era diventato una stucchevole commedia. Non che i rigurgiti di fascismo siano scomparsi: chi vuole mostrarsi un superuomo si attacca dove può ed ha bisogno di ideologie d’odio verso quello che percepisce come un mondo ostile. È però una patologia che fa parte delle debolezze umane e una quota marginale continuerà ad esserci: se non ci si riparerà sotto quell’ombrello pseudo-ideologico, se ne troveranno altri.

Non stiamo parlando però del grande contrasto che divide in due il campo del confronto politico. Oggi esso è tornato ad essere incentrato sul confronto tra massimalismo e riformismo. Che poi sia anche un retaggio di quel che successe cent’anni fa con l’affermarsi del fascismo fa parte della reazione ad una nuova incertezza sul nostro futuro: allora fu quella di ciò che sarebbe accaduto dopo una “Grande Guerra” che aveva sconvolto il mondo, oggi l’innesco è una pandemia da cui non sappiamo bene come e quando usciremo e che ha messo a nudo le molte debolezze del nostro contesto storico.

Il nuovo bipolarismo che divide il campo fra riformisti e massimalisti sconvolge i fronti politici tradizionali, perché tanto gli uni che gli altri attraversano sia le componenti che tradizionalmente si considerano “a destra” sia quelle che si proclamano “di sinistra”. Perché il tema fondamentale è se alla trasformazione economica, sociale, culturale in cui siamo immersi si possa dare una risposta che cambia radicalmente il quadro (“rivoluzionaria” non è più un termine di moda) o se dobbiamo ragionare per rivedere le nostre coordinate ed adeguarle ad un contesto che è in fase di profonda mutazione.

Il massimalismo è continuamente fra noi. Lo vediamo nelle espressioni di molto ecologismo, nella cosiddetta “cancel culture” (quella che abbatte i monumenti dei personaggi storici perché nella loro epoca non la pensavano come noi), nelle varie demagogie che pensano di bloccare le ondate migratorie coi blocchi e coi muri, nelle pretese di considerare privilegiate e superiori tutte le opzioni personali quali che siano. Poi ci si fa meraviglia se è difficilissimo riportare alla ragione i vari no vax, no pass, e roba simile, che sono semplicemente una versione rozza e abborracciata di questo insieme di pulsioni massimaliste (né stupisce che gli eredi improvvisati di altri massimalismi storici cerchino di farsi un nido lì dentro).

Detto questo, non è che il riformismo riesca facilmente a conquistare la gran massa di quelli che in fondo il massimalismo non lo vorrebbero. Tanto per giocare un poco coi paralleli storici, vogliamo ricordare che nella famosa scissione socialista di Livorno del 1921 quelli che i comunisti e i massimalisti socialisti tacciavano di riformismo rifiutavano quella categorizzazione. Anche loro volevano essere considerati rivoluzionari, solo che ritenevano che ci si dovesse muovere con gradualità. Non volevano si pensasse che la ricerca di riforme finisse per narcotizzare la grande trasformazione a cui si aspirava.

Oggi il problema si ripresenta. Di nuovo il gradualismo viene presentato come una resa al mitico “sistema vigente”, di nuovo si predica la possibilità di cambiare verso alla storia, anche senza bisogno di sconvolgimenti violenti. Questo rende più che arduo proporre riforme che siano ragionevoli e che possano migliorare la situazione senza necessità di vendere la favola che così in poco tempo si cambierà il mondo. Quando si agisce in questo modo si è tacciati ben che vada di essere “pragmatisti”, cioè gente che aggiusta un po’ le cose, ma sarebbe accettabile solo se, come si diceva una volta con uno slogan oggi dimenticato, “le si preserva per la rivoluzione”. Guai a sostenere che una buona riforma dell’esistente lo modifica senza bisogno di stravolgere un quadro di progressi a cui siamo arrivati in un cammino storico non certo facile.

Il riformismo sembra avere uno scarso fascino. Suppone, è vero, la maturità di accettare che sia necessario convivere con dei limiti, adattarsi a comporre esigenze diverse, tenere conto che gli errori che si sono fatti in passato si devono pagare e saranno superati solo col tempo. Non è facile muoversi in quest’ottica, che implica fatica, mentre l’oppio del massimalismo illude che si possa cancellare col pensiero la realtà, allontanare da sé, almeno con la fantasia, il peso che ogni situazione storica inevitabilmente contiene.

Vi sembra un discorso astratto? Rileggetevi quel che si dice dentro quasi tutti i partiti che si disputano la scena pubblica, e vedrete facilmente come il tono dominante della comunicazione pubblica, ben sostenuto dai media, è il massimalismo. Ognuno presenta la sua soluzione miracolosa sulle tasse, sull’immigrazione, sui diritti delle scelte sessuali, e avanti con l’elenco. Il bipolarismo sembra ridursi ad uno scontro fra chi proclama il “ciascuno per sé e Dio per tutti (forse)” e chi favoleggia redistribuzioni di tutto per avere un mondo di “eguali” (basta pasticciare un poco col guru Piketty).

Una battaglia elettorale in questo contesto provocherà sconquassi, è una facile previsione. Oltre a ragionare su una buona riforma elettorale (lo si sta facendo piuttosto timidamente e malamente) converrebbe correre ai ripari per svelenire il dibattito pubblico dal fascino perverso del massimalismo. Se non ci si riesce, sarà difficile fare vere e incisive riforme e se si perde questa occasione lo si dovrà poi fare a partire dalla ricostruzione di macerie.