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Si fa presto a dire riforme

Paolo Pombeni - 19.08.2014
Il passatore

Doppiato il Ferragosto si fanno i progetti politici per l’autunno ed a dettare l’agenda è la situazione concreta: poco brillante, come certificano le cifre sulla situazione economica, meno drammatica di quel che si poteva prevedere solo perché le difficoltà economiche mettono in crisi anche molti importanti partner europei e questo fa sperare che siano disponibili a qualche allentamento delle politiche di austerità.

Di nuovo si presenta però il noto mantra: per avere il privilegio di un occhio europeo benevolo è necessario mostrare che siamo capaci di fare le riforme. Non basteranno quelle istituzionali che servono a mostrare la forza della nuova classe politica che si sta insediando al potere e che così dà prova di non essere ostaggio dei vecchi clan (sebbene sia opportuno ricordare che la vicenda è tutt’altro che conclusa e dunque qualche sorpresa può sempre arrivare). Ci vorranno le riforme del sistema economico, inteso nella sua accezione più larga, e qui la faccenda è molto più difficile perché tocca davvero il tema del consenso popolare.

Diciamocelo chiaro: alla gran parte della gente che l’elezione del nuovo Senato sia di primo o di secondo grado, che il sistema elettorale preveda il ballottaggio al 37 o al 40% o quale sia la soglia di sbarramento per l’ingresso dei partiti a Montecitorio, interessa il giusto. Non che siano temi irrilevanti, ma in questo momento le preoccupazioni per il futuro sono altre.

E’ qui che sta il nodo delle riforme da fare: bisogna ridisegnare un sistema in cui in astratto è facile distinguere il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo, ma in pratica andrebbe riconosciuto che è tutto un intreccio perverso di bene e di male avviluppati insieme, per cui non è semplice essere sicuri che assieme al secondo non si sradichi anche il primo.

Ciò che tutela le molte lobby e tribù che si sono fatte il nido acquisendo privilegi nei lunghi decenni di crisi della capacità politica di governo è che esse hanno abilmente associato larghe masse di cittadini alle loro situazioni privilegiate. Tutti sanno benissimo che la palla al piede dell’Italia è il suo debito pubblico astronomico (135% del PIL!), ma si finge di credere che esso sia frutto di un misto fra fatalità ed ingordigia di una ristretta fetta di popolazione. In realtà esso si è creato mischiando privilegi notevoli per numeri ristretti di soggetti con piccoli privilegi per una platea amplissima di altri soggetti: e siccome diceva Totò che è la somma che fa il totale, tirate voi la conseguenza.

Oggi il governo e il parlamento hanno davanti il complicato problema di smontare e rimontare il sistema Italia, in modo da tagliare senza pietà i privilegi divenuti insostenibili, senza però squassare gli equilibri sociali, già resi precari da un periodo di crisi senza precedenti, almeno nel tempo che forma la memoria collettiva attuale.

Quel che si spera verrà evitato dal governo è ciò che vorremmo chiamare la tecnica del “Passatore” (il famoso bandito romagnolo, che secondo Pascoli era “cortese”, ma che in realtà non lo era affatto): appostarsi metaforicamente a qualche angolo per alleggerire questo e quello di un po’ di denaro. Sarebbe ripetere l’errore che la politica italiana ha costantemente fatto nei decenni passati: un po’ di “prelievi di solidarietà” qui, qualche taglio lineare là, e il gioco è fatto.

Ovviamente in un contesto in cui bisogna sostenere la domanda interna, ridurre i redditi di chi può spendere non è che sia una gran strategia (qualcuno dovrebbe spiegarlo al ministro Poletti). Altrettanto la revisione della spesa pubblica è una cosa sacrosanta, ma bisogna sapere che poi riducendo gli sprechi si ridurranno comunque delle spese che tengono in vita un certo circuito economico. Sperando poi che con la riduzione degli sprechi non si finiscano per colpire, come sinora è sempre avvenuto, anche le spese virtuose che sono di fatto forme di investimento che creano un circuito di crescita.

Aggiungiamoci che qualcuno dovrebbe anche preoccuparsi che la stretta sugli sprechi non finisca per dare alle collettività condizioni di vita peggiori. L’esempio è facile da trovare ed è quello della ventata neo-centralista che sta travolgendo la politica italiana. Certo è sacrosanto indignarsi per sprechi ed abusi perpetrati dalle regioni, ma vorremmo porre all’attenzione del legislatore due semplici questioni: 1) è sicuro che poi nelle regioni che, nei limiti umani, governano bene la sottrazione di competenze non produrrà un caos nei servizi con conseguente protesta sociale?; 2) come possiamo immaginarci che, tanto per fare un esempio, in Sicilia, il governo dei servizi in mano allo Stato produca meno corruzione di quella che c’era quando li governava la regione?

Il ragionamento potrebbe estendersi ad ampie casistiche, ma non viene fatto per dire che allora tutto va lasciato com’è. Ovviamente questa conclusione ci porterebbe semplicemente al disastro. Vuol solo dire che bisogna unire alla rapidità di intervento ormai necessaria, un alto livello di realismo e di capacità critica nel costruire consenso intorno ad un mutamento di scenari che deve farci progredire e non essere la scusa per una confusione da trapasso a beneficio di questo e quello.

Quasi la quadratura del cerchio, per cui è necessario chiamare in campo tutte le energie migliori.