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27 marzo 2024
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Sarete come Dio?

Michele Iscra * - 06.05.2017
Pagliaro - Punto

Scrive la Bibbia che il serpente tentatore per convincere Adamo ed Eva a mangiare il frutto proibito dell’albero della conoscenza avesse prospettato loro che grazie a quell’azione sarebbero diventati “come Dio”. Senza bisogno di rinnovare quel peccato, o forse per le conseguenze antropologiche cui esso si rifà, viviamo in un contesto in cui l’illusione di essere “come Dio”, cioè di essere ad un vertice che non tollera nessun limite esterno, sta diffondendosi in maniera impressionante in molte persone.

Non si tratta di fare dell’allarmismo a buon mercato, ma solo di invitare a riflettere su fenomeni ai quali assistiamo quotidianamente. L’ampio territorio dei “diritti” sembra governato dall’idea che l’essere titolari di un certo diritto significhi poterlo imporre a scapito dei diritti degli altri. Spesso per di più questo diritto è più che altro presunto, ma non è questo il punto. Anche se quanto si reclama fosse effettivamente dovuto ci si dovrebbe chiedere se ciò autorizzi a ledere quanto è dovuto ad altri.

Si pensi alla pratica divenuta corrente di ricorrere nelle azioni di protesta a blocchi stradali e ferroviari. Con ciò si lede il diritto alla mobilità di soggetti che oltre tutto non sono neppure “controparti” di chi manifesta. Non è neppure chiaro quanto servano azioni di quel tipo. Per avere un po’ di ritorno mediatico, ma si dovrebbe sapere che ormai quel ritorno mediatico non aiuta tranne che in pochissimi casi, tanto siamo abituati a notizie di questo genere. Dunque siamo semplicemente in presenza di una irrazionale spinta a porre un determinato soggetto al centro della scena dandogli una illusione di momentanea onnipotenza.

Naturalmente gli esempi si possono moltiplicare. Una questione di fondo è che in ogni caso mancano o meglio sono venuti meno gli strumenti di confronto che possono consentire di ridimensionare (ma sarebbe più esatto semplicemente dire di “dimensionare”) le pretese dei singoli attori di essere norma a sé stessi. Il fenomeno di cui tanto si discute ora, quello della cosiddetta “postverità”, o, detto in forma più spiccia, dell’enorme riscontro che hanno le “bufale” di varia origine e portata trova la sua radice in questo sentimento di innalzamento al ruolo divino del proprio ego.

Quanto sia ampia e complessa la fenomenologia della disinformazione lo ha messo in luce Paolo Pagliaro in un aureo libretto davvero da raccomandare (P. Pagliaro, Punto, Il Mulino). Il successo di questo mondo delle bufale sarebbe più difficile se non si fosse affermata la presunzione che se un argomento convince me che lo incontro, allora è senz’altro vero. Il fatto che persone più attrezzate o più autorevoli possano mostrarne l’infondatezza non interessa: io recettore sono “come Dio” quindi non vi può essere autorità sopra di me. Anzi: sono io che faccio la verità, per cui anche se poi cambierò idea questo non mi ridimensiona né mi costringe a comportamenti più accorti in futuro.

Le ricadute di questa mentalità, ormai molto diffusa, sono più devastanti di quanto non si realizzi. Prendiamo il tema della politica. Per chi cerca di conquistarsi spazi in quest’ambito l’obiettivo è convincere il più alto numero possibile di interlocutori. Si dirà: ma è sempre stato così. Indubbiamente, solo che in passato si doveva tenere conto, almeno in una certa misura, del pericolo di essere sbugiardati dagli avversari. Oggi questo rischio è ridottissimo, perché l’abitudine alla verifica della sostenibilità delle proprie opinioni è limitata a quote abbastanza ristrette della popolazione. Di conseguenza chi riesce a “catturare” un consenso può contare di non perderlo, a meno che non cambino le suggestioni a cui è soggetto chi glielo ha conferito.

Forse le conseguenze più devastanti di questa autodivinizzazione di ogni soggetto riguardano la gestione dello spazio pubblico. In ogni contesto comunitario, da una scuola ad una città, da un ambiente naturale ad una realtà istituzionale è difficile contare sia su regole condivise di auto limitazione sia sulla forza di inibizione che potrebbe derivare dal controllo e dalla repressione degli altri fruitori. Cosa questo significhi è esperienza comune, ma lo è altrettanto il fatto che persino l’intervento della mano pubblica venga vissuto non come tutela della libertà di tutti, ma come limite al libero arbitrio delle libertà individuali. Si pensi, tanto per fare un esempio alla polemica sulla “militarizzazione” dei centri urbani che viene fatta da certe componenti ogni qual volta si aumenti la presenza di forza pubblica per garantire la sicurezza dei cittadini in alcune aree. La libertà di esercitare il proprio “sballo” è considerata preminente rispetto alla libertà che garantisce la promozione della sicurezza e della legalità.

Forse una riflessione sull’espansione dei deliri di onnipotenza che affliggono la mentalità contemporanea non sarebbe fatica sprecata.

 

 

 

 

* Studioso di storia contemporanea