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07 settembre 2024
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Renzi, il populismo e l’università italiana

Giovanni Bernardini - 15.10.2015
Fabio Fazio e Matteo Renzi

Cos’è questo populismo di cui i media si riempiono la bocca e contro il quale allertano l’opinione pubblica? Certamente populista è la deriva xenofoba caldeggiata da molte forze politiche europee indipendentemente dal loro grado di presentabilità. Lo è altrettanto la fuga da una seria analisi della realtà per trovare rifugio nel complottismo che impazza nel discorso pubblico. L’odio senza compromessi per il diverso, per nemici invisibili e inclassificabili (rivelati soltanto da leader che “vedono più lontano”) sono fantasmi che hanno già visitato le stagioni più nere di questo continente, e che si spera abbiano lasciato anticorpi sufficienti a prevenire ricadute. Tuttavia i casi appena citati sono manifestazioni episodiche di un fenomeno più ampio e sfuggente. Perché prima ancora di riempirsi di contenuti, il populismo è innanzitutto forma, metodo, approccio alla politica. Questo populismo ha come marchio la pretesa identificazione tra un leader e un intero popolo: il primo portavoce dei “reali” bisogni del secondo, contro “caste e potentati” e più ancora contro regole e procedure vissute come fastidiosi intralci. È la tentazione permanente delle spiegazioni e delle soluzioni facili, immediate, appetibili per i bassi istinti e redditizie in termini di consenso; è la mobilitazione di un epidermico risentimento anti-intellettuale contro chi, invece, avrebbe il compito di mettere in guardia sulla complessità del reale e contro illusorie scorciatoie.

 

La carica dei 500 (o lo sbarco dei 1000?)

 

Ne consegue che per trovare cedimenti populisti non è necessario scomodare urgenze drammatiche come quelle ricordate sopra, né prendere di mira i soliti noti per i quali l’epiteto “populista” suona piuttosto come un vanto. A tali cedimenti non è estraneo nemmeno il nostro giovane premier, che su questo piano sembra poco interessato a cambiare l’Italia e i suoi vizi. Non si saprebbe come qualificare altrimenti la sua boutade televisiva di qualche sera fa, di fronte a un Fazio ormai più a suo agio sull’ingessato palco dell’Ariston che nel pungolare il potente di turno. Centoventi secondi di spot per un “provvedimento ad hoc” di assunzione per “500 professori universitari”: incomprensibile ai più, insensato per gli addetti ai lavori, ma che certo strizza l’occhio al basso ventre di un’opinione pubblica che da sempre vede l’università – tutt’altro che esente da colpe – come il fortino di élite privilegiate e poco trasparenti. Fa una gran confusione, il premier, evidentemente indeciso tra indulgere alla consueta litania dei “cervelli in fuga” per attaccare chi prima di lui li ha lasciati partire, e al contempo ricordare che “in Italia non rimangono solo i pancreas”, giacché il primo comandamento è non avvelenare nessun serbatoio elettorale. Insomma non si è capito se questi “professori” saranno stranieri, o italiani di rientro, o italiani intrappolati nel sistema patrio: l’unica cosa certa è che saranno “i migliori”, selezionati in base al “merito, merito, merito e non alle amicizie”, attraverso procedure “slegate dalle dinamiche burocratiche tradizionali della pubblica amministrazione”. A questi non soltanto sarà dato “un assegno come professore”, ma anche un bel “gruzzolo per i propri progetti di ricerca”. Con l’obiettivo, manco a dirlo, di fare dell’Italia “un posto dove le idee possono veramente fiorire”. Sipario e applausi. Poche ore dopo la grancassa de “L’Unità” rilancia che la vittoria del merito supererà “le burocrazie baronali”. Magicamente le cattedre “potrebbero sfiorare le mille”, selezionate da commissioni di prestigio internazionale “magari coinvolgendo l’ERC” (un bell’acronimo oscuro ai più che dà un tocco alla Harry Potter). La chiusura “con juicio” precisa però che metà cattedre di merito “partiranno subito” e il resto nel corso dei prossimi anni.

 

Misure ad hoc e disastri permanenti

 

Ciò che il premier non racconta è la più scomoda realtà di ogni giorno. Non dice che 500 o persino 1000 assunzioni di altrettanti geni non sarebbero nemmeno la proverbiale goccia in un oceano di circa 200 settori concorsuali e 100 atenei, in un contesto in cui il rapporto docenti/studenti è tra i peggiori in occidente e il numero dei primi è crollato del 22% dal 2009. Non dice nemmeno – e il bravo presentatore e la stampa amica si guardano bene dall’incalzarlo – che “ad hoc” è esattamente il “latinorum” di cui l’università italiana, traumatizzata dalla rivoluzione permanente di mille riforme incompiute, ha meno bisogno. Né fa alcun riferimento al problema del sottofinanziamento cronico cui l’università è sottoposta, aggravato dai tagli lineari inferti da tutti i governi: l’Italia è trentesima su trentatre paesi OSCE per spesa nell’università e addirittura ultima per percentuale del PIL, ma evidentemente il paragone con l’estero è un espediente selettivo. Poca chiarezza il premier fa anche circa il metodo di reclutamento, uno dei pochi punti su cui qualcosa di non deprecabile è emerso di recente: dovranno i geni essere in possesso della tanto sbandierata – ma poco amata da questo esecutivo – abilitazione scientifica nazionale? O ne saranno esentati, screditando ipso facto l’intero processo che ha impegnato molti aspiranti professori e fornito responsi già utilizzati nei concorsi in essere? E infine il premier non dice che, a fronte delle tendenze in corso, il reclutamento dei “migliori” potrebbe rivelarsi poco utile perché c’è da chiedersi a chi andranno a insegnare: le iscrizioni sono ormai in costante calo dal 2008, e rispetto a 10 anni fa il numero di diplomati che ha proseguito gli studi si è ridotto del 27,5%. Dati che all’estero farebbero tremare governi ed esigerebbero un’analisi rigorosa delle cause e una repentina inversione di rotta.

Altre cose il premier le dice, invece, alla pancia di un paese diffidente verso quell’università che è sempre meno percepita come luogo di possibilità di crescita, di maturazione di una cittadinanza consapevole e critica, di moltiplicatore delle opportunità sociali. Dice che il suo governo ha di meglio da fare che mettere mano alle “dinamiche burocratiche tradizionali della pubblica amministrazione”, al sistema di “amicizie” e alle “burocrazie baronali” che pure a suo dire infettano l’università italiana. Con quelle è bene dunque che si rassegni a continuare a combattere l’esercito di precari sottopagati che da anni costituisce la spina dorsale dell’università italiana; che ha sempre meno gruzzolo e tempo per fare ricerca, e che talvolta osa sentirsi demotivato dalla scarsa considerazione della classe politica e dell’opinione pubblica. Un esercito che però ha la sfortuna di avere un peso elettorale irrilevante. E che magari rompe anche le scatole quando si mette a indagare temi di nessuna importanza come i rischi del populismo odierno.