Renzi e l’Europa, tra quotidiano e sistemico
Riflettere sul semestre di presidenza italiano dell’Unione europea che si concluderà ufficialmente con il discorso di Matteo Renzi il prossimo 13 gennaio 2015 può essere un buon angolo visuale sia per fare il punto sull’operato del nostro Primo ministro a poco meno di un anno dal suo ingresso a Palazzo Chigi, sia, più in generale, per fermarsi ad osservare a che punto si trova l’ “infinita” transizione italiana. L’Italia di Renzi, nel corso del semestre di presidenza dell’Ue, ha cercato di mantenersi in equilibrio tra soluzioni congiunturali e più complicate e decisive svolte strutturali. Renzi, il paladino della velocità e della svolta rapida, si trova quotidianamente a fare i conti con esigenze di brevissimo periodo che finiscono, il più delle volte, per cozzare con dinamiche di medio e lungo periodo. Ed il semestre di presidenza, da questo punto di vista, è stato uno specchio fedele di tale difficile equilibrismo.
Nel suo discorso al Parlamento di Strasburgo del 2 luglio scorso Renzi aveva contrapposto un’Europa stanca, annoiata e rassegnata (attraversata da una pericolosa ondata populista certificata dal voto di fine maggio) all’immagine di un mondo che corre veloce e finisce per lasciare indietro proprio il Vecchio Continente. Si era poi soffermato a ricordare che il Patto di stabilità presenta anche, sin dalle origini, una parte dedicata alla crescita, troppo a lungo trascurata. E infine non si era sottratto dalla sfida che nello specifico riguarda l’Italia e cioè la possibilità che, da osservato speciale (insieme a Parigi) delle istituzioni europee, il nostro Paese si trasformi in pungolo rispetto alla cosiddetta linea dell’austerità. Particolarmente apprezzato era stato, a questo proposito, il suo richiamo ad un’Italia che deve cambiare prima di poter chiedere alla stessa Ue un cambiamento.
Qualcuno potrà dire che quando dalla prosa si è passati all’azione le difficoltà si sono palesate. Nel complesso però, sui dossier più urgenti, si deve considerare il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. È certamente vero che tempo ed energie del semestre sono stati in parte occupati dalle complicate mediazioni sulle nuove nomine. È altresì vero che chi scrive ha giudicato in maniera severa il braccio di ferro per ottenere l’incarico di Alto rappresentante per Mogherini, a scapito di qualche buona chance di vedere Enrico Letta al posto di Van Rompuy (e dell’attuale Tusk). Resta che Palazzo Chigi ha, almeno da un punto di vista dell’immagine, ottenuto ciò che voleva e mostrato indubbie doti strategiche nella gestione del complicato passaggio delle nomine.
Se dalle nomine si passa al tema caldo dell’immigrazione, la fine di Mare Nostrum e l’avvio di Triton segnano un avanzamento, anche se non definitivo, nella direzione dell’europeizzazione della materia.
L’escalation dello scontro tra Russia e Ucraina ha imposto un’altra reazione rapida alla presidenza italiana. Anche su questo punto, nonostante le accuse di eccessiva benevolenza verso Putin, proprio la convinzione che il canale con Mosca non debba essere mai chiuso, ha portato allo stesso Renzi il successo del dialogo tra Mosca e Kiev, ripartito al vertice straordinario di Milano di metà ottobre.
Infine, la grande battaglia renziana sul tema della crescita e dell’occupazione. Al di là della caricaturale contrapposizione tra i laboriosi e austeri abitanti del nord (guidati da Merkel) e i fannulloni abitanti del cosiddetto Club Med dell’Europa del sud, capeggiati dall’ex sindaco di Firenze, il presidente del Consiglio ha avuto l’indubbio merito di imporre un tema. Ben oltre l’attuale dotazione (davvero minima) del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, l’insistenza di Renzi è riuscita ad imporsi politicamente. È vero che il Consiglio europeo di dicembre ha rinviato il discorso a fine gennaio 2015 e ha confermato il braccio di ferro sulle modalità di finanziamento del fondo e sulla possibilità, per gli Stati membri, di influire sulle decisioni dello stesso finanziamento. Ma è senza dubbio merito della presidenza italiana quello di avere certificato, soprattutto a livello di opinione pubblica, che il “patto fondativo” del 1992 prevede stabilità (conti in ordine) almeno quanto crescita (investimenti).
In definitiva, se si eccettua il colpevole silenzio italiano sull’importante trattativa in corso tra Ue e Usa, per istituire la Transatlantic Trade and Investement Partnership, si può affermare che il governo Renzi abbia dispiegato un invidiabile attivismo nei suoi sei mesi di presidenza.
Ma è proprio la carenza sul TTIP che permette di introdurre qualche riflessione, questa volta meno benevola, a proposito della più complicata dimensione strutturale. E tale dimensione richiama inevitabilmente le difficoltà nazionali nel declinare il proprio ruolo in Europa, difficoltà peraltro strettamente legate alla lunga crisi politica, economica ed istituzionale che il nostro Paese vive da oltre un quarantennio.
Ragionando in maniera sistemica, si può affermare che il processo di integrazione stia vivendo la sua “terza età”. La prima è stata una sorta di golden age. Chiare erano le missioni e altrettanto i risultati. Scongiurare nuovi conflitti, costituire uno dei due pilastri del fronte occidentale, ricostruire e strutturare la società del benessere. La seconda è stata una sorta di “gioco di rimessa”, il tentativo di rispondere a due imponenti sfide sistemiche: la fine di Bretton Woods e quella quasi contestuale della crescita continua. L’apice di questa seconda “età” del processo di integrazione è senza dubbio il Trattato di Maastricht e la successiva nascita dell’euro. Se nel primo caso l’Italia si era immediatamente accodata alla proposta franco-tedesca e aveva svolto un ruolo di primo piano in particolare per ripartire dopo il trauma della Ced, non altrettanto si può dire del ruolo di Roma nella lunga gestazione della moneta unica. Complice la profonda crisi che l’Italia vive dalla sfida terroristica sino a Tangentopoli e al trionfo dei tecnici in politica, la moneta unica, ma anche la fine dell’Europa bipolare (che è parte integrante di questa seconda età), sono state sostanzialmente subite dal nostro Paese.
Oggi stiamo vivendo nella terza fase del processo di integrazione, dominata da quattro grandi questioni: risposta al terrorismo di matrice islamica in tutte le sue forme, allargamento ad est e conseguente rapporto con Russia e Turchia, questione istituzionale (in particolare nel dopo referendum franco-olandese) e risposta “europea” all’evoluzione economico-finanziaria in atto dopo il caos del 2008.
Come si colloca il “renzismo” in questo quadro? È il tentativo di trascinare l’Italia fuori dalle sabbie mobili nelle quali si trova dalla metà degli anni Settanta. E tale tentativo passa attraverso un rinnovato protagonismo anche a livello continentale (accompagnato da un lavoro di rinnovamento economico ed istituzionale a livello interno). Osservati da questo punto di vista i sei mesi alla guida dell’Ue lasciano perplessi. Certamente positiva è stata l’attenzione nel trattare il dossier russo-ucraino. Non altrettanto però si può dire del Nord Africa, basti pensare al nulla europeo ed italiano nella gestione della polveriera libica, dopo l’imprudente “guerra europea” del 2011. Allo stesso modo deficitario e un po’ dilettantistico è stato l’approccio alla crisi, oramai conclamata, dell’asse franco-tedesco, per quanto riguarda i rapporti di forza all’interno dell’Ue. A poco serve oscillare tra l’ipotesi immaginifica di strani “assi del sud”, con Parigi e il tentativo di recuperare un rapporto “privilegiato” con Londra, reso sempre più desueto dalle divaricazioni profonde tra i due sistemi politici ed economici.
Commentando il già citato discorso pronunciato a Strasburgo il 2 luglio scorso, alcuni osservatori avevano sottolineato il carattere ambizioso delle parole di Renzi, per poi chiedersi se fosse sufficiente essere ambiziosi per risultare all’altezza delle proprie ambizioni. Ebbene Renzi è certamente (e aggiungo giustamente) ambizioso e lo mostra nel suo operato di ogni giorno. Il punto è che il renzismo non ha ancora chiarito quali siano le sue reali ambizioni per il Paese. Ha dimostrato, anche nel semestre di presidenza europeo, di avere ricette originali per la congiuntura, ma di restare ancora un punto interrogativo di fronte alle complicate dinamiche sistemiche.
di Gianpaolo Rossini
di Michele Marchi
di Patrizia Fariselli *