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Quale futuro per l’Ue tra Berlino e Parigi

Lucrezia Ranieri * - 14.11.2018
RdP

Che l’Unione Europea permanga da molto tempo in uno stato a dir poco confusionale sembra un fatto ormai acclarato. Di tutte le questioni da tempo in esame a Bruxelles non sembra essercene una che sollevi un minimo di consenso condiviso, o della quale si prospetti una soluzione a breve termine. Ad un anno dall’inizio dei negoziati, l’accordo sulla Brexit appare ancora lontanissimo e i malumori sulla questione migranti sono tutt’altro che sopiti; quanto alla questione finanziaria, il braccio di ferro tra le pretese di spesa del governo italiano e l’indisponibilità della Commissione ha riportato a galla, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’evidenza di una permanente frattura tra le culture economiche dei paesi europei che rende assai difficile l’avanzare di un progetto comune di riforma dell’eurozona. Alle tensioni interne si aggiunge inoltre il globale deperimento del consenso verso quella forma di internazionalismo liberale nella quale l’Unione Europea stessa affonda le sue radici. Se l’ondata di elezioni nazionali del 2017 era stata anticipata, come un presagio, dall’elezione di Donald Trump, a gettare la sua ombra sull’Atlantico, questa volta, è l’ascesa alla presidenza brasiliana di Jair Bolsonaro. È in questo scenario poco roseo che ci si prepara ad affrontare una dura stagione di campagna elettorale per le elezioni europee di maggio, nelle quali, però, a voler cercare del positivo, forse come mai prima d’ora l’Unione Europea costituirà certamente il centro del confronto elettorale. La politicizzazione del dibattito accentuatasi con la crisi dei debiti sovrani sembra infatti irreversibile: sparito una volta per tutte il consenso trasversale – ma anche, forse, acritico o fondamentalmente indifferente – che aveva a lungo caratterizzato l’approccio dell’opinione pubblica nei confronti del processo di integrazione europea, la partita sul futuro dell’Unione si gioca ora su un ventaglio di proposte differenti e spesso difficilmente conciliabili. In un contesto in cui scarseggiano solidi punti di riferimento, sembra dunque lecito domandarsi che ruolo possa eventualmente avere quel “motore” franco-tedesco che all’indomani delle elezioni tedesche e francesi del 2017 sembrava, almeno a parole, alle soglie della sua piena ricostituzione.

Per rispondere a questa domanda appare utile ritornare agli undici saggi pubblicati da Rivista di Politica nel numero di aprile-giugno 2018. Il dossier monografico curato da Gabriele D’Ottavio e Michele Marchi (Tra Berlino e Parigi: il futuro della politica, il futuro dell’Europa), benché risalente ormai a qualche mese fa, non si limita infatti a comporre una fotografia dell’esistente; esso propone alcuni temi e chiavi di lettura che, non risentendo affatto dell’imperativo presentista con cui talvolta si affronta il dibattito politico, permettono di rilanciare l’argomento anche ora che alcune delle prospettive evidenziate dagli autori dei saggi assumono, piuttosto, l’aspetto di amare profezie. I due paesi che hanno in più di un’occasione costituito l’asse portante della costruzione europea rappresentano, infatti, due piattaforme in cui l’intreccio tra l’evoluzione delle politiche nazionali e il futuro dell’Unione appare assai paradigmatico. Non a caso, come evidenziato dai contributi, il tema del rilancio del progetto europeo ha dominato il passaggio delle elezioni del 2017 in entrambi i casi: in Germania favorendo lo strutturarsi di un “consenso post-elettorale” utile alla formazione della Grande Coalizione (si veda a tal proposito il saggio di G. D’Ottavio), in Francia fornendo a Macron un elemento di positiva differenziazione rispetto all’avversaria del secondo turno, Marine Le Pen. Ma l’idea di Europa presentata a cavallo delle due sponde del Reno è apparsa andare ben al di là della mera funzione elettoralistica; nella sua lunga opera di “pedagogia europeista” (M. Marchi) Macron ha esplicitato tanto ai francesi quanto al resto degli europei quale fosse il suo piano di rilancio dell’Europa, accompagnando la pragmatica individuazione di tre grandi aree di riforma (eurozona, migrazioni, difesa e sicurezza) con una più ampia visione del rapporto Francia – Europa – Mondo. Come ben spiegato nel saggio di F. Turpin, la politica estera di Macron si inserisce perfettamente nella scia della “svolta multilateralista” che negli anni ’70 ha aggiornato l’idea gollista delle relazioni internazionali configurando un passaggio dall’impostazione bilaterale a quella multilaterale come risposta ai fenomeni di globalizzazione. Di aggiornamento si tratta, più che di rottura, perché l’obiettivo di fondo è rimasto sempre lo stesso: permettere alla Francia di svolgere il suo compito nel mondo e di perpetuare, o ritrovare, la sua vocazione universale. In questo senso, per Macron la costruzione europea è diventata uno strumento necessario, un “moltiplicatore di influenza”, per agire con effetto in un mondo multipolare. Districandosi dall’abusata antitesi tra “sovranismi” e “antisovranismi”, il discorso macroniano ha voluto mostrare come il punto sia, piuttosto, quello di individuare lo strumento migliore per esercitare tale sovranità – e cioè, per le questioni che esulano dai contesti nazionali, proprio un’Unione Europea rafforzata nelle sue competenze principali e in grado di “proteggere” le sue nazioni e i suoi cittadini. Asse portante di questa Europa dovrebbe ovviamente essere quello franco-tedesco. È questo un tandem che, in virtù della sua lunga storia, è destinato a funzionare? Macron ha innanzitutto avviato una non banale opera di riequilibrio in un’alleanza che dal crollo del Muro in avanti – e ancor più dal grande allargamento - aveva visto la Francia sempre più relegata al ruolo di junior partner rispetto al gigante tedesco, non ultimo, suggerisce M. Hau, per l’ostinazione con cui si è portata avanti una politica economica stato-centrica che ha mancato di rispondere alla necessità di liberalizzazioni e al grave problema della progressiva deindustrializzazione. Accanto all’attivismo esibito sulla scena internazionale, dunque, un’opera di riforma interna sul fronte dell’economia e della finanza è sembrata assolutamente necessaria per poter parlare alla Germania da una posizione di parità. Ma perché si possa parlare di tandem franco-tedesco, i due moniti lanciati dal presidente francese, quello di un ritorno di una dimensione tragica nella storia europea e quello della necessità di abbandonare il feticismo sui conti pubblici per procedere nella direzione di una maggiore solidarietà (M. Marchi), devono essere innanzitutto recepiti da Berlino. In un primo momento, infatti, la Cancelliera non è sembrata cogliere le suggestioni macroniane con particolare slancio, ribadendo invece l’indisponibilità tedesca verso una revisione del patto di stabilità o l’inserimento di forme di mutualizzazione del debito. L’”atteggiamento pragmatico”, così lo definisce G. D’Ottavio, è derivato sicuramente dalla certezza di agire da una posizione negoziale privilegiata, ma anche, spiegano L. Bonatti e A. Fracasso, dalla sostanziale necessità di difendere ciò che dal dopoguerra in avanti ha costituito il fulcro del modello socio-economico tedesco. Se la stabilità dei flussi finanziari garantita da un’organizzazione banco-centrica e la pace/equità sociale assicurata invece dal neo-corporativismo sono direttamente funzionali al sistema manifatturiero e neo-mercantilistico tedesco, è dunque assai improbabile che si possa rinunciare ai principi dell’ordoliberalismo senza passare per una modifica radicale dell’intero Modell Deutschland. Nonostante il recente ammorbidimento di Merkel e di alcuni dei suoi consiglieri economici, e sebbene la neo ri-costituenda lega anseatica dimostri come sia sempre possibile trovare qualcuno più realista del Re, la sostanziale continuità della politica economica tedesca pone una discreta pregiudiziale alla possibilità di trovare con Macron un accordo sulla riforma dell’eurozona. Ad aggiungere difficoltà alle difficoltà, poi, non va dimenticato il difficile momento che i sistemi politici occidentali vivono nella loro quasi totalità. Per tornare agli assunti iniziali e ripartendo dal titolo di questo dossier, va rimarcato quanto il futuro dell’Europa sia strettamente legato al futuro della politica in Europa. E quanto, da questo punto di vista, le incognite siano molteplici. La crisi dei partiti tradizionali ha portato ad un tale rivolgimento politico in entrambi i paesi, che qualunque tentativo di programmazione futura sembra poggiare su fragili basi. S. Bolgherini individua, in particolare, tre elementi di discontinuità nel sistema politico tedesco: la nascita di un nuovo partito a destra della Cdu/Csu (Alternative für Deutschland), l’inedita azione di moral suasion svolta dal Presidente della repubblica in favore della Grande Coalizione e la situazione di crisi in cui si trovano le leadership dei due Volksparteien. Se quest’ultimo punto era vero all’indomani della formazione del governo, è ancor più vero oggi a conclusione delle elezioni in Baviera e Assia, alle quali è seguito il passo indietro di Angela Merkel. C

he l’elezione del futuro leader della Cdu risulti favorevole o meno alla Cancelliera, la domanda è se la Germania continuerà sulla strada di una convergenza verso le posizioni francesi, o se invece si muoverà in direzione di un occidentalismo mitteleuropeo sul modello austriaco. Ad ogni modo, come sottolineato da M. Caciagli, l’entità e la profondità del cambiamento che agisce sul piano sociale, economico e culturale tanto in Germania quanto in molte realtà europee impedisce di considerare la crisi che stiamo vivendo come passeggera o reversibile. Di fronte ad un cambiamento di tale portata sarebbe dunque necessario ripensare radicalmente gli strumenti e gli scopi dell’azione politica. In questo senso, Macron è forse un passo avanti rispetto ai colleghi tedeschi, ponendosi egli non solo a garanzia della tenuta del sistema francese, ma anche come suo elemento rinnovatore, in questo facilitato dall’estrema stabilità e plasticità delle istituzioni della Quinta Repubblica (M. Marchi). Tuttavia, resta ancora da vedere quanti dei propositi enunciati possano effettivamente tramutarsi in azione coerente e se quanto esposto sia sufficiente ad evitare il definitivo tracollo. Nonostante la “macron-mania”, infatti, nemmeno il Presidente francese risulta immune agli andamenti ondivaghi di popolarità; se la fermezza con cui ha gestito alcuni dossier internazionali ha giovato alla sua figura di “monarca repubblicano” in patria, ha però contribuito a minarne l’immagine di leader europeo, perlomeno nella nostra penisola, dove l’eclettismo della sua proposta politica ha finito per causare non poca confusione fra gli osservatori italiani (R. Brizzi). Resta vero il fatto che il suo invito a procedere nel percorso verso l’integrazione adottando un modello “a più velocità”, sebbene non originale, resti ad oggi, se non l’unica opzione, certamente un’opzione percorribile. Ma come mette in luce M. Brunazzo, l’idea dell’integrazione differenziata non è certo una novità per il processo di integrazione europea; la sfida starebbe ora nell’attuarne un modello definito e vincente. Manca però, con tutta evidenza, un progetto condiviso che vada in tale direzione.

Nel possibile contributo italiano – che risulterebbe necessario, peraltro, alla difesa dei nostri interessi – è ingeneroso sperare, persi come siamo in un labirinto di auto-referenzialità che sembra attualmente privo di sbocchi. Dobbiamo dunque guardare ancora una volta alle due sponde del Reno, perché arrivino delle risposte? Molto del futuro dell’Europa si gioca lì, ma è sempre lì che è attualmente in discussione il futuro della politica per come la conosciamo. Basterà ricalcare o rinnovare formule già viste o, come aiuta a domandarsi l’ultimo saggio di B. Bourdin presente nella rivista, sarà invece necessario problematizzare e ripensare alcuni degli assunti del pensiero politico occidentale dati oggi per scontati?

 

 

 

 

* Laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche – Unibo – Campus di Forlì