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27 marzo 2024
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Professoroni, professori e professorini. A margine del dibattito sulle riforme istituzionali

Maurizio Cau - 17.04.2014
Cattedra

Coi suoi toni accesi, il dibattito sulle proposte di riforma istituzionale avanzate dal Governo non smette di infiammare gli animi di commentatori politici, giuristi e uomini di partito. Nelle fasi di passaggio ogni tentativo di ridefinizione dei tradizionali confini del gioco politico è all’origine di robuste contrapposizioni, così non stupisce che la riflessione in queste settimane si sia andata polarizzando intorno a due posizioni: quella dei sostenitori, pur con mille distinguo, della portata riformista del progetto avanzato da Renzi e quella dei suoi detrattori, allarmati dai contenuti di quel disegno non meno che dallo stile e dalla cultura politica che sembrano animarlo.

Ne è derivato uno scontro di posizioni che, a ben vedere, si sviluppa lungo due direttrici tra loro intrecciate. Da un lato il confronto, dal registro discorsivo non sempre rispettoso ed elegante, tra “politici” ed “esperti” (i tanto odiati/amati tecnici, in questo caso giuristi); dall’altro lo scontro generazionale tra la classe intellettuale che negli ultimi decenni ha guidato il Paese e un nuovo fronte generazionale, intenzionato a conquistare un ruolo attivo nel governo del presente e nella definizione dei contorni del futuro.

Il primo terreno di scontro, quello tra la politica e parte della cultura accademica, porta a evidenza la malcelata idiosincrasia degli italiani verso la classe intellettuale e la cultura prodotta dalle e nelle Università, un’idiosincrasia assolutamente trasparente nelle critiche rivolte alle posizioni dei “professoroni” e dei “parrucconi”. Si tratta di una forma di sufficienza che, non scevra di venature demagogiche, esprime a sua volta due diversi fenomeni: l’insuccesso delle politiche riformiste della recente storia repubblicana, di cui la cultura accademica è almeno in parte corresponsabile, e la progressiva perdita di centralità dei giuristi, che nel recente passato non hanno saputo proporre modelli condivisi per attuare il modello di ridefinizione dello spazio politico nazionale da più parti invocato.  

Pur vestite di un registro non certo felice, le affermazioni di Renzi e Boschi richiamano dunque l’attenzione sugli insuccessi della lunga stagione di riforme del bicameralismo mai decollate, le quali per certi versi rappresentano un insuccesso per la stessa cultura giuridica italiana, che quei tentativi ha anticipato, accompagnato e commentato (dalla Commissione Bozzi del 1983-85 alla Commissione De Mita-Iotti del 1992-94, da quella D’Alema del 1997-98 al progetto Violante del 2007, fino ai più recenti disegni del 2012 e alle riflessioni dei 35 saggi per le riforme messi al lavoro dal Governo Letta). Ma il panorama della cultura costituzionale espresso dal mondo accademico italiano non pare così coeso come la contrapposizione tra politici e giuristi ha lasciato credere all’indomani dell’appello lanciato da Zagrebelsky e Rodotà.

Il fronte dei costituzionalisti sembra infatti percorso da una frattura che, almeno in parte, si sviluppa lungo una faglia segnata dall’elemento generazionale. Se in appoggio alle critiche avanzate nei riguardi della proposta di riforma del Senato si sono espressi alcuni dei nomi più noti della scienza giuridica italiana (Alessandro Pace, Lorenza Carlassare, Gaetano Azzariti, Mario Dogliani), in parziale difesa del disegno del Governo si sono schierati molti esponenti di una generazione più giovane di giuspubblicisti (Stefano Ceccanti, Tommaso Edoardo Frosini, Giovanni Guzzetta, Michele Ainis), che pur sottolineando alcune criticità del progetto di revisione del sistema bicamerale sembra sposarne l’impianto fondativo, ispirato alle soluzioni adottate dalle grandi democrazie europee. Un confronto piuttosto puntuto tra “professoroni” e “professori”, verrebbe da dire, in cui cerca di inserirsi un terzo blocco generazionale, prontamente ribattezzato dalla stampa come gruppo dei “professorini”, composto da una nutrita delegazione di ricercatori universitari in diritto costituzionale che lunedì 14 ha incontrato ufficialmente ministro Boschi per discutere del disegno di legge di riforma del Senato e del Titolo V.

Ai “professorini” (Dossetti, Moro, La Pira, Lazzati) la storia dell’Italia repubblicana deve molto e forse non è il caso di giocare con eccessiva disinvoltura con le etichette giornalistiche, ma resta il fatto che qualche atmosfera sembra rimandare alla stagione costituente del dopoguerra, segnata proprio da una non facile coesistenza tra elementi di novità e modelli di pensiero legati alla tradizione. Non si propone certo di ripercorrere il dibattito attuale alla luce del confronto (teorico e generazionale) che nel secondo dopoguerra ha visto contrapposta la vecchia scuola liberale, quella difesa da Vittorio Emanuele Orlando, alla scienza giuspubblicistica proiettata verso il nuovo ordine repubblicano, quella ben rappresentata da Costantino Mortati, ma vale la pena tornare col pensiero a quel decisivo torno d’anni per ricordare che nelle età di transizione, e la nostra è un’età in transizione, la convivenza tra il nuovo e il vecchio non avviene sempre all’insegna della linearità, e che nei frangenti di rottura l’avvicendamento generazionale tra le elite intellettuali gioca un ruolo centrale, e ancora che i rapporti tra la sfera della politica e quella della riflessione giuridica si muovono intorno a linee di tensione talvolta assai accese, ma non per questo improduttive.