Partito: una parola tabù
Alla base della Seconda repubblica c’è un elemento di grande ipocrisia. Riguarda l'uso della parola "partito", che dopo il 1993 ha fatto la stessa fine della parole "patria"; ogni volta che "cade un regime", insomma, non sapendo fare i conti con la nostra storia li facciamo con la toponomastica (come in effetti è giusto) ma anche con il linguaggio corrente. Però, così come la Patria non è morta neanche l'8 settembre del 1943 (e semmai è risorta il 2 giugno 1946, a volerla dire con enfasi), tanto da essere rivalutata da un Capo dello Stato antifascista come Carlo Azeglio Ciampi, anche i partiti non sono affatto defunti. Anzi, già dal 1994, cioè nel primo parlamento della "Seconda repubblica", molti gruppi e molti soggetti politici (tranne il Ppi e il Pds, ad onor del vero) hanno continuato e continuano tutt'oggi ad agire come partiti, vergognandosi però di definirsi tali. Ciò è accaduto per tre motivi: negli ultimi ventisette anni, partito è sinonimo di corruzione, burocrazia politica, tangenti. In tutti i sondaggi il discredito per i partiti è a livelli record. Però è il nome che non piace, perché' se nove su dieci non amano i partiti, almeno sette su dieci (alle elezioni) li votano. Strano, vero? Il secondo motivo attiene al rinnovamento: la grande promessa tradita della Seconda repubblica è stata quella di cambiare in meglio il Paese, le sue istituzioni, l'etica della politica e la macchina burocratica. Peccato che ben poco sia cambiato e che - anzi - il livello medio degli esponenti politici del nostro tempo sia molto inferiore a quello dei predecessori di trenta o quaranta anni fa. Così, non sapendo rinnovare (al di là di trovate geniali come il federalismo, che ha saputo produrre di risulta e per un motivo biecamente elettorale - il tentativo del centrosinistra di agganciare la Lega di Bossi nel 1999 - una pessima riforma del Titolo V della quale paghiamo care le conseguenze) è stato deciso almeno di cambiare "il nome della cosa": niente partito, meglio movimento (Berlusconi ha addirittura fatto suo un incitamento sportivo - Forza Italia - che da allora molti milioni italiani hanno difficoltà a gridare, persino durante le partite della Nazionale di calcio). È stato fatto credere agli italiani che i partiti erano spariti e con essi i vecchi vizi; questi ultimi sono rimasti, mentre i nomi e le sigle sono scomparsi. Di più: si è fatto credere che la Seconda repubblica fosse un nuovo sistema istituzionale (con l’elezione diretta, mai attuata se non a parole, del presidente del Consiglio: di qui le bestialità sui “governi eletti o non eletti” dagli italiani) e non, più semplicemente, un secondo sistema dei partiti dopo quello del 1946-1993. Il marketing elettorale ha preso il posto del rinnovamento politico e morale del Paese: lo ha surrogato, dando ai "cittadini acquirenti" dei prodotti con nuove etichette, un nuovo packaging (con tanto di lanci pubblicitari all'americana, ispirati da una nuova figura professionale, lo spin doctor) da lanciare sui social e nelle piazze, anche se spesso dentro la confezione non c'era nulla o quasi di concreto (i napoletani lo chiamerebbero "pacco"). Il terzo motivo dell'ostracismo della parola partito sta nel progressivo affermarsi della leadership monocratica e autocratica: ormai abbiamo soggetti politici tanto personali che si identificano col cognome del capo (presente nel nome o nel logo). C’è da chiedersi che fine farebbero la Lega senza Salvini, FdI senza la Meloni, Iv senza Renzi (ma si potrebbe proseguire) o - per contro - se l'antipartito per eccellenza - il M5s - si rivelasse invece per quel che è, cioè un partito, seppure con regole un po' diverse da quelle degli altri e con una leadership più "spalmata". Il leaderismo è in aperto contrasto con l'idea di partito, perché', come sa bene chi ha letto qualche libro scritto negli ultimi cento anni o poco più, i partiti sviluppano di solito al loro interno un'oligarchia, non una monarchia. In altre parole, hanno una classe dirigente, fanno congressi, sono "contendibili" (cioè qualcuno può sperare di prenderne la guida al posto del leader in carica, tramite un congresso o altre forme comunque democratiche di consultazione) e hanno un programma che talvolta è più importante di chi lo interpreterà (il capo). Soprattutto, nei partiti - come sa bene chi si è occupato della loro mancata regolamentazione per decenni, alla luce dell'articolo 49 della Costituzione - tutelano le minoranze interne. Invece oggi chi non è d'accordo, in molti partiti, viene invitato ad andarsene, esce di sua spontanea volontà oppure è espulso. Del resto, ci sono monarchie assolute che non riconoscono dissenso o comunque non lo sopportano. A parte alcune eccezioni (il Pd, per esempio, che - pur non essendo partito anni Settanta-Ottanta - conserva almeno - con tutti i suoi difetti - qualche traccia visibile di ciò che vuol dire essere un partito) la Seconda Repubblica vive di partiti monarchici che hanno soppiantato quelli oligarchici della Prima; è più accentrata nelle leadership e più flessibile sui programmi e sugli ideali (talvolta "à la carte"); spietata con gli oppositori, è però insolitamente conciliante con chi, cambiando gruppo parlamentare, chiede ospitalità; ha sdoganato parole forti, fino e oltre il turpiloquio e l'offesa al Capo dello Stato, ma ha paura di chiamare i partiti col loro nome. Quanta confusione, sotto questo cielo.
di Luca Tentoni
di Francesco Domenico Capizzi *