Ultimo Aggiornamento:
22 marzo 2025
Iscriviti al nostro Feed RSS

Lo stato dei segreti nell’Italia di Renzi

Giovanni Bernardini - 26.04.2014
Strage di Ustica

Persino nell’epoca in cui è prassi che i titoli facciano notizia (e non il contrario), l’uso accorto della formula “segreti di stato” garantisce ancora una vasta eco in Italia. Ritenere che il Primo Ministro non ne fosse cosciente significherebbe fare torto alla sua riconosciuta abilità mediatica. A dire il vero, Renzi si è ben guardato dall’impiegare l’espressione; l’equivoco si deve piuttosto ai suoi più entusiastici supporter che hanno annunciato come, con un tratto di penna, il Presidente del Consiglio avrebbe “abolito il segreto di stato”. Molto si potrebbe riflettere sui danni del sensazionalismo giornalistico e, perché no, sul ridicolo a cui sotto ogni regime non cessano di esporsi i “più realisti del re”. Almeno per questo volta, però, proviamo a procedere dai fatti ai giudizi: è doveroso innanzitutto verso quei cittadini e familiari di vittime “delle macchie oscure nella nostra memoria comune” a cui lo stesso Presidente ha giustamente rivolto un pensiero.

La direttiva sottoscritta lo scorso 22 aprile dispone “la declassificazione degli atti relativi ai fatti di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna, rapido 904”. Un atto fondato su prerogative assolute della Presidenza del Consiglio, che Renzi ha avuto buon gioco nel ricondurre a quella trasparenza annunciata come “punto qualificante” del governo.

Per sgomberare il campo: il segreto di stato continuerà a esistere come atto discrezionale della Presidenza del Consiglio su documenti e notizie la cui diffusione “può danneggiare gravemente gli interessi fondamentali dello Stato”. Tutt’altro che una prerogativa italiana, nel nostro caso tuttavia esso ha ricevuto una vera regolamentazione soltanto nel 2007, quando la legge ne ha limitato la durata a 15 anni; ulteriori proroghe fino a un massimo di 30 anni devono essere giustificate dalla Presidenza del Consiglio al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il quale può sollevare un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale. Tuttavia, lo stesso provvedimento legislativo escludeva tassativamente il segreto di stato per informazioni relative a fatti eversivi dell’ordine costituzionale o concernenti terrorismo e delitti di strage.

E dunque? Riportata nell’alveo del suo innegabile ma limitato merito, l’iniziativa di Renzi segnala gli indifendibili ritardi nell’applicazione della legge del 2007, nella declassificazione e soprattutto nella raccolta e apertura alla consultazione del materiale documentario presso l’Archivio Centrale dello Stato. Materiale che, in larga parte, non è oggi coperto da segreto, ma ancora peggio disseminato in una miriade di archivi e tribunali periferici che ne hanno fatto uso in innumerevoli processi. Questo solleva alcuni ordini di considerazioni.

Da un lato, lo stato lamentabile degli archivi pubblici italiani, che loro malgrado gli storici ben conoscono, rende semplicemente impensabile la gestione e l’assorbimento di una simile mole di carta da parte del sistema attuale. Negli ultimi venti anni gli Archivi di Stato e le Soprintendenze hanno perso oltre il 40% del personale, e il 60% di quello in attività ha un’età superiore ai 60 anni senza, senza nuovi reclutamenti all’orizzonte. Se anche il lodevole exploit di Renzi andasse a buon fine, esso assumerebbe un carattere torrentizio stagionale, a fronte del regolare flusso documentario che in altri paesi è garantito da normative puntuali sulla declassificazione del materiale documentario. Finché l’Italia non si doterà di strumenti legislativi paragonabili (e per una volta ben venga l’emulazione degli Stati Uniti e del loro eccellente Freedom of Information Act) e di una struttura archivistica che restituisca senso e dignità all’indagine sul nostro passato, quest’ultimo rimarrà alla mercé della lungimiranza del Presidente di turno nel migliore dei casi, e della sua ricerca di consenso nel peggiore. Sbaglierebbe chi ritenesse questa l’opinione interessata di una casta di storici desiderosa soltanto di facilitare il proprio lavoro. Soltanto con questa sistematicità sarebbe finalmente possibile sottrarre le vicende ricordate da Renzi a una macabra “controgenealogia” della Repubblica, che i silenzi e l’incuria delle istituzioni hanno lasciato in balia del sospetto permanente e del professionismo del complotto. Soltanto con questo impegno le stragi e il terrorismo, e con essi le loro vittime, sarebbero finalmente restituiti al respiro e alla contestualizzazione che meritano all’interno del dibattito storiografico e di quello pubblico sul nostro passato. E, a ben guardare, sul nostro futuro.