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Letta non fare l’Enrico

Paolo Pombeni - 24.03.2021
Letta e Merkel

Qualcuno all’interno del PD si è compiaciuto perché Letta si chiama Enrico e questo potrebbe rimandare ad Enrico Berlinguer e far risorgere la sua proposta politica. Francamente speriamo che il nuovo segretario non cada in questa trappola, perché non è proprio il caso. Non tanto perché la situazione attuale è ben diversa da quella degli anni Ottanta del secolo scorso, ma perché il modello Berlinguer è purtroppo quello in cui vorrebbero incappucciarlo persone che non crediamo siano suoi amici. Eppure qualche mossa iniziale dell’Enrico Elle un po’ scivola sulla china che non portò bene all’Enrico Bi.

Il segretario del PCI, sull’onda di quel che sosteneva all’epoca la stampa “amica”, si fece intrappolare ad avviare il suo partito verso quella trasmissione che alcuni, Ermanno Gorrieri fra questi, definirono un “partito radicale di massa” (alla Pannella). Era la resa ai miti del momento, a quegli idola tribus che sembravano portare il PCI alla futura guida dell’alternanza: l’austerità, la diversità, la presunzione di essere fuori dai “vizi” del sistema politico italiano. In realtà portò i suoi successori (perché non sappiamo ovviamente cosa sarebbe accaduto se Berlinguer non fosse morto prematuramente nel 1984) all’affermazione sulla scena di Berlusconi.

Oggi Letta sembra cedere ai nuovi idola tribus attuali per conquistare l’immagine di quello che è “à la page” per i tempi attuali. Abbiamo già avuto occasione di scrivere che ci sembra avventata la proposta di voto ai sedicenni. L’argomento che ha portato di recente, cioè il fatto di avere nel suo staff alcuni studenti universitari non sta in piedi: non solo perché si tratta come minimo di ventenni (e a quello stadio quattro anni di differenza sono un salto di maturità), ma anche perché il potersi servire dell’intelligenza di alcuni (e può benissimo essere che ci siano sedicenni molto maturi e capaci) non significa che tutti i loro coetanei lo siano.

Poi si è buttato sullo ius soli, termine in sé sbagliato perché si tratta di ius culturae: la cittadinanza a chiunque nasca, magari per caso, in un certo territorio, non è oggi sostenibile in fase di migrazioni di massa. Altro è riconoscere giustamente che chi si è formato con un percorso di integrazione sul nostro territorio, particolarmente se fatto in giovane età e con la partecipazione a percorsi scolastici e formativi, si identifica con la nazione in cui ha ricevuto questa “educazione”. Che poi questa, come si è visto in molti casi, non sia sufficiente è altra questione: ma ciò vale anche per molti figli di italiani che il percorso scolastico-educativo non riesce a trasformare in cittadini, e dunque come il rischio si corre in questi casi, va corso anche con gli immigrati. Poi sono argomenti che sarebbe meglio articolare anziché buttare lì come slogan, ma questo è un altro paio di maniche.

Veniamo all’ultimo idolo a cui Letta ha bruciato incenso: l’obbligo di eleggere donne in posti di rilievo. Anche qui ci permettiamo di dire che si tratta di una mancanza di considerazione per le donne. Proprio gli esempi che lui ha portato contraddicono il suo modo di procedere: Merkel, von der Leyen, Lagarde sono personaggi politici di rilievo che si sono imposti per le loro qualità, non certo in base a qualche “quota rosa”. Se gli sembrava che a presiedere i gruppi parlamentari ci fossero donne più qualificate di Del Rio e di Marcucci, non aveva che da appoggiarle mentre quelle si facevano strada da sole. Se queste circostanze non c’erano, non si vede perché privarsi di due buoni politici (come lui stesso sostiene siano) giusto per prestare omaggio agli idoli del momento.

Eppure Letta avrebbe problemi ben più seri a cui applicarsi. Il primo, essenziale, è il lavoro per adeguare il sistema politico al cambiamento imposto dalla riforma grillina sul taglio dei parlamentari e dalla attuale situazione della geografia elettorale. Al momento commentatori, anche autorevoli, riducono tutto alla scelta fra un sistema elettorale proporzionale ed uno maggioritario.

Non è così semplice. Anche chi ritiene che il pericolo di una frammentazione ingestibile sarebbe implicito in una legge elettorale a base proporzionale, conviene che un sistema maggioritario va disegnato con attenzione. Innanzitutto bisogna garantirsi che le coalizioni che diventano indispensabili in questo sistema non possano sciogliersi a piacimento una volta che i partiti che le compongono abbiano conseguito il risultato di vedere eletti i propri candidati, pena il ritorno obbligatorio alle urne. Così i patti di coalizione diventano vincolanti e coloro che li sottoscrivono sanno di rischiare molto se li rompono.

Questo diviene essenziale per il PD sia nel rapporto con l’area dei piccoli partiti, di centro o di estrema sinistra, ma soprattutto con i Cinque Stelle, che rimangono un alleato problematico. Solo con una legge maggioritaria che affronti sia il problema dello scioglimento della coalizione, sia il destino di singoli parlamentari che si staccano (Letta ha tutte le ragioni nel mettere in discussione la situazione assurda del “gruppo misto”), si potrà mettere alla prova la reale convinzione di M5S di stare nel centrosinistra ed avere un’arma per limitare le loro pretese in termini di seggi e soprattutto di candidature. Quest’ultimo aspetto vale sia per i Cinque Stelle che per l’estrema sinistra, che devono capire che non possono imporre loro candidati “divisivi”, i quali non solo non sono nella logica della raccolta di un consenso ampio, ma che poi creerebbero problemi di gestione in parlamento e, nel caso, al governo.

Ci permettiamo di dire che questo o altri temi simili sono molto più produttivi per creare un “partito nuovo” che non l’inchinarsi alle mode del momento.