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Le incognite del nuovo senato

Paolo Pombeni - 21.06.2014
Senato

Sembra che la riforma del senato arriverà in porto. Almeno in una prima fase, perché è una legge costituzionale e l’iter non sarà breve. Renzi sta per battere, sempre al momento, le opposizioni, che, a dire il vero, non sono mai state convincenti.

 

Le ragioni per uscire dal nostro bicameralismo perfetto e ormai senza senso sono molto solide. In sostanza non ha alcun senso che lo stesso corpo elettorale elegga due camere teoricamente in concorrenza fra loro, in quanto dovrebbero bilanciare l’una l’attività dell’altra. Lo si è sempre saputo, ma per salvare il principio, certo fondato, della opportunità di una doppia lettura almeno per leggi delicate, si è fatto finta di nulla, inventandosi differenze che non c’erano (un corpo elettorale con diverso sbarramento di accesso per l’età, una finta base regionale dei collegi, ecc.). Finché i partiti erano disciplinatori efficaci dell’attività dei parlamentari nelle due Camere il gioco poteva reggere. Dissolta quella capacità in capo ai partiti il sistema è diventato solo fonte di ritardi e pasticci, senza contare che una “doppia lettura” diventa difficile da fare in maniera seria quando si è annegati da una produzione continua di leggi e decreti.

 

Dunque bene se quel tipo di bicameralismo sarà superato e di conseguenza nessuna obiezione al fatto che il modo di selezione del nuovo senato non passi per una designazione diretta da parte del corpo elettorale che ha espresso la Camera dei Deputati (che dunque voterebbe due volte per la stessa cosa).

 

Detto questo sembra però che non ci sia una riflessione sufficiente su cosa significherà avere una seconda camera formata su criteri nuovi. Va bene che non voterà la fiducia al Governo, ma non è che altri poteri non siano egualmente in grado di produrre opportunità di condizionamento della nostra vita politica e costituzionale. E’ giusto infatti evitare di fare un Senato che non serve a quasi nulla (il cosiddetto “dopolavoro” dei rappresentanti delle autonomie), ma una assemblea che ha dei poteri li può usare, eccome, per negoziare coi governi in carica e per condizionarli.

 

Fa parte della natura della democrazia rappresentativo-competitiva, e va bene. Però è ingenuo non chiedersi a quali centri di interesse risponderanno i nuovi senatori. Al momento vediamo che il dibattito si concentra per lo più su quali partiti saranno favoriti dalla scelta dei senatori fra sindaci e rappresentanti delle regioni, con la paura che il PD risulti troppo avvantaggiato. Ci pare però una visuale piuttosto miope.

 

Innanzitutto poiché si parla di un centinaio di senatori che vengono scelti da assemblee di secondo grado molto politicizzate (le assemblee dei sindaci di una regione e i consigli regionali: almeno così sembra) possiamo presumere che si tratterà di persone fortemente “negoziate”: poiché non sempre in quei contesti ci sarà maggioranza di un solo partito, e sicuramente quasi mai una opposizione che fa capo ad un solo partito, i futuri senatori saranno frutto di accordi di coalizione (più o meno obbligata). In secondo luogo, questi saranno fortemente legati a dinamiche locali e più che alle visioni generali di un partito (già in crisi dopo il tramonto definitivo delle ideologie di riferimento) risponderanno agli “interessi” molto contingenti dei territori, per di più agli interessi vigenti al momento della scelta. Aggiungiamoci che questi “territori”, cioè le regioni, sono raramente sintetizzabili in identità complessive e collettive, ma piuttosto sono percorsi da lotte intestine che una volta si chiamavano campanilismi e che oggi non è più corretto definire così, ma esistono, eccome.

 

Ora il nuovo Senato ha alcune competenze fortissime, come da un lato è logico, ma come dall’altro è stato fatto per accedere agli appetiti non solo della Lega, ma anche di tanti altri feudatari del potere locale, in materia di leggi che riguardano gli interessi delle regioni. E qui si tocca un inevitabile punto dolente: quei centri di governo, a Sud come a Nord, ad Est come ad Ovest, non è che abbiamo dato prova generalizzata di oculatezza nella spesa e di assenza di clientelismo. Dubitiamo di conseguenza che i senatori espressione di questo quadro caotico del potere locale saranno capaci, che so, di introdurre serie razionalizzazioni della spesa sanitaria, controlli efficaci sull’uso dei fondi europei, metodi di sviluppo pulito della spesa per infrastrutture (citiamo a caso, naturalmente …).

 

Nel disegno originario si era pensato di calmierare almeno queste possibili distorsioni introducendo circa un quinto di membri nominati dal Presidente della Repubblica fra figure di alta competenza e riconosciuta attenzione al bene comune. Sembra che l’ipotesi sia caduta (o ridotta ad una quota di componenti insignificante) anche per sospetti che possono essere legittimi: chi ci dice che poi questi membri non siano o frutto dell’alchimia di designazioni politiche, o il risultato delle pressioni dei media che si inventano i “personaggi” a cui far incarnare quelle caratteristiche? Ovviamente i presidenti della Repubblica sono come i papi: a volte vengono elette personalità di altissimo profilo, a volte quel profilo è un po’ più zoppicante (nel caso dei papi i credenti sperano che intervenga lo Spirito Santo, che peraltro ha suoi modi incomprensibili di agire; nel caso dei presidenti della repubblica quell’intervento non è previsto …).

 

Insomma la riforma è necessaria e le sue linee portanti sono anche condivisibili, ma se non saranno sorrette da una nuova cultura politica e da una nuova etica pubblica ad orientare la selezione dei futuri senatori non si può essere tranquilli.