Ultimo Aggiornamento:
14 dicembre 2024
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La violenza simbolica, dalla distorsione pedagogica al potere dominante

Francesco Provinciali * - 21.05.2022
Violenza simbolica

Di tutte le forme di persuasione occulta, la più implacabile è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose. (P. Bourdieu)

Dobbiamo al sociologo francese Pierre Bourdieu – che la usò nei suoi saggi agli inizi degli anni ’70 – l’introduzione nel lessico, poi divenuto corrente, della locuzione “violenza simbolica”.

Essa intenzionalmente esplicita tutta una serie di forme di violenza agìte non in forma fisica, bensì attraverso una sorta di imposizione occulta, a partire dalla visione del mondo in senso lato per declinarsi nei ruoli sociali, nelle categorie cognitive, nelle forme mentali attraverso cui viene percepita e pensata la realtà, da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati. Essa si manifesta dunque in forma apparentemente invisibile anche se dagli esiti tangibili ad una attenta osservazione dei comportamenti individuali e sociali, configurando veri e propri rapporti di forza tra chi la esercita e chi la subisce: questo tema della distinzione tra dominante e dominato è un vero e proprio assioma che spiega i meccanismi della persuasione occulta o “dolce” , come la definisce lo stesso Bourdieu che formulò le sue deduzioni a partire da uno studio di tipo pedagogico sulla trasmissione del sapere nella sua forma istituzionalizzata e codificata del sistema scolastico francese, inoltre su uno studio sui Kabili, un popolo berbero-algerino dell’Africa del Nord, privo sostanzialmente di archetipi e di mitologie, dove inizialmente gli uomini e le donne non esprimevano gerarchie di genere, che gli permise di spiegare l’origine della dominanza del genere maschile su quello femminile, come lo stesso sociologo francese ebbe modo di argomentare nella celebre e lunga intervista realizzata a Parigi nel 1994 con Gabriella Giudici.

Queste due ricerche forniscono i due esempi più classici di violenza simbolica che il sociologo propone: l'imposizione di un arbitrio culturale nell'azione pedagogica e la replicazione del dominio maschile sulle donne tramite la "naturalizzazione" della differenziazione tra i generi. Nella descrizione del termine “violenza simbolica”, Bourdieu si sofferma inoltre a spiegare il concetto di “habitus”, che è il processo attraverso il quale la trasmissione culturale e la legittimazione di comportamenti e valori prendono forma e sostanza e inoltre quello di “incorporazione” che connota le modalità in cui si esplicita la metabolizzazione nel corpo sociale dell’esercizio del potere dominante sui soggetti che lo subiscono, pur se spesso inconsapevolmente Le ricerche di Bourdieu sulla violenza simbolica vanno contestualizzate al periodo storico della loro genesi, esprimendo entrambe ambiti tematici emergenti nel grande contenitore del ‘68: da un lato la trasmissione del sapere – quindi l’atto pedagogico nella sua concezione impositiva di consegna generazionale preordinata, come formulata da Emile Durkheim quale forma di determinismo educativo, dall’altro la differenziazione di genere e l’emancipazione femminile come processo che riguarda lo svincolo dal dominio maschile, socialmente e normativamente pervasivo. L’intuizione semantica e concettuale di Bourdieu conserva oggi una sua pregnante attualità: possiamo anzi dire che i mutamenti sociali in continuo divenire e la lunga teoria di rivendicazione dei diritti individuali hanno alimentato con nuova linfa il dibattito intorno al tema della violenza simbolica. I processi di istituzionalizzazione del potere dominante si sono accompagnati ad una radicale trasformazione dei meccanismi di partecipazione democratica nel mondo occidentale, con un evidente deriva di polarizzazione accompagnata da una progressiva disintermediazione sociale: la politica da un lato, i cittadini - monadi isolate – dall’altro. Lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico, la prevalenza del pensiero calcolante ed ora la consegna pervasiva alla digitalizzazione finanche nei percorsi di strutturazione e definizione identitaria, riscrivono pagine decisive intorno all’antico tema del rapporto tra natura e cultura, tra scienza codificata e metodica del dubbio: fondamentale può essere al riguardo una rilettura critica di Martin Heidegger, da un lato e di Karl Popper dall’altro.

Per fermarsi al ‘900 senza cercare radicamenti più lontani.

Tutto ciò riguarda tanto la dimensione metastorica quanto le psicopatologie nascoste nei meandri della vita quotidiana. Basti pensare all’evoluzione dei concetti di trasparenza e di privacy: un tempo esprimevano ‘normali’ aspirazioni di libertà, oggi sono incapsulati nel grande contenitore della burocrazia degenerata a mero strumento di controllo e di esercizio del potere legittimato: espunta l’idea di normalità (e di coscienza e slancio vitale), l’irreggimentazione in regole e norme sempre più pervasive non ha il significato di una tutela ma quello del dominio.

Viviamo nell’epoca dell’impossessamento del mondo e della sua progressiva distruzione: lo stesso flagello pandemico ne è una conseguenza, eppure c’erano state lungimiranti previsioni. Si consideri un altro aspetto che si rivela decisivo. “Il pensiero-che-fa di conto”, grande preoccupazione di Heidegger perché preclude alternative divergenti di approccio al mondo e alla narrazione esistenziale, nella sua esplicitazione speculativa,  è il vero ‘dominus’ di questo tempo: ce lo ricorda Galimberti quando afferma…”che non esistono alternative a questo modo prevalente di pensare, esclusivamente calcolante: è allora inquietante che il mondo intero si trasformi in un unico, enorme apparato tecnico e – soprattutto – che noi non siamo preparati a questa radicale trasformazione del mondo. Ma la cosa ancora più inquietante è che non disponiamo più di un pensiero alternativo al pensiero della tecnica. Questo ha dei risvolti e dei cascami ancora più miserabili perché la gente – non avendo un’alternativa al ’pensiero che calcola’ – per percepire il mondo si affida ai luoghi comuni, diffusi in primis dai media e dalla televisione, facendosi suggestionare da idee ipnotiche e linee guida non-pensate della propria vita”. Ciò vale a maggior ragione per il pensiero simbolico perché come aveva argomentato Freud il progresso della civiltà comporta il possesso di regole sempre più precise, coatte e stringenti – tali da rinchiudere l’uomo in una sorta di gabbia d’acciaio. Questa è forse la lettura più aggiornata e coerente dell’intuizione di Bourdieu. Oggi la violenza simbolica è uno strumento di persuasione occulta che generalizza il potere e lo rende ubiquitario, estendendolo in forma massiva. Il presupposto affinché ciò si realizzi – lo abbiamo più volte sottolineato- è la prevalenza del pensiero-pensato sul pensiero pensante, che si esprime attraverso i cortocircuiti comunicativi degli stereotipi e dei luoghi comuni. Sotto questo profilo l’idea di “violenza simbolica” travalica l’originaria intuizione del pensatore francese e investe la società globalizzata, creando una estesa forma di “incorporazione”. La società digitale potrebbe infatti produrre un universo simbolico di relazioni in cui domande e risposte sono già scritte per cui, pur disponendo di straordinari mezzi di comunicazione, non abbiamo nulla da dire poiché usiamo il linguaggio circolante e indotto da soggetti o agenzie esterne.  Lo stesso Giulio Giorello pur definendo con somma evidenza la scienza “comprensione del mondo” e l’impresa tecnica “una delle grandi componenti della emancipazione umana”, aveva messo in guardia contro le degenerazioni dello “scientismo” e l’abbandono del pensiero critico di Kantiana memoria: questa osservazione vale in ogni campo, quando la ragione è sostituita dal dogma. Le incognite sono molteplici e poco rassicuranti. Va tuttavia osservato che il sistema pedagogico di istruzione e formazione che Bourdieu aveva stigmatizzato come prima fonte generativa di violenza simbolica, potrebbe oggi diventare invece luogo di riflessione, meditazione, discernimento, elaborazione di pensiero critico e divergente. Il fatto che molti si attendano dalla scuola-oltre il mero passaggio di nozioni- l’assolvimento di un compito educativo ed etico significa che – ad una lettura scevra da pregiudiziali ideologiche e anti-sistema – il pericolo di un esercizio sistematico e di un radicamento della violenza simbolica si è spostato verso altre agenzie alternative, un tempo celebrate dai falsi maestri delle finte tassonomie valoriali, come luoghi di elaborazione di nuovi e più aggiornati saperi.

Viviamo un’epoca in cui anche il concetto di identità – come sintesi di natura e cultura – rischia di essere minato alla radice della sua matrice biologica e unitaria: ove ciò accadesse finiremmo per assemblare un’umanità ondivaga, senza approdi e senza orizzonti di autorealizzazione esistenziale.

Anche questo aspetto richiama il secondo angolo di osservazione di Bourdieu sulle forme di violenza simbolica da lui considerate ed apre a temi attuali: la discriminazione di genere e sessuale e tutti i reati connessi, spesso agìti attraversando il web e tutti i suoi reconditi dintorni.

I nuovi linguaggi recano con sé codici semantici e comunicativi privi di ancoraggi culturali, che tuttavia possono alimentare forme sempre più sofisticate di violenza simbolica, fino a conculcare e svuotare di senso etico la vita stessa. Basti pensare alla torbida demagogia commerciale nei messaggi degli ‘influencer’. È importante ricordare gli studi di Ernst Cassirer che assumono a fondamento e oggetto di ripensamento della dottrina critica kantiana, soprattutto in funzione di una rivisitazione del concetto di comunicazione simbolica come fenomenologia della conoscenza: “«non possiamo cercare il vero “immediato” là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi”. Il valore di questa affermazione è enorme, in termini di epistemologia della conoscenza e in senso valoriale, anche per comprendere quanta virtualità positiva e non dominante o impositiva sia sottesa al linguaggio simbolico, oggi prevalente.

L’aveva capito Eraclito (535 A.C-475 A.C) e l’aveva scritto nel suo unico libro che si conosca: “Sulla natura”.

L’aveva ripreso Martin Heidegger, incidendolo come aforisma sull’architrave della sua baita di montagna nella Foresta nera: “il fulmine governa ogni cosa”. Credo che la folgorazione di quell’attimo di bagliore intenso voglia farci capire che il vero discrimine – simbolico e reale – di ogni azione umana è la coscienza morale che la sottende.