L’Ucraina tra Putin e l’Occidente
“Chiediamo alla popolazione di non restare in strada e di rifugiarsi in luogo sicuro”. Le autorità municipali di Donetsk, roccaforte dei filorussi nell’Est dell’Ucraina, lanciano appelli ai civili sulla scorta di quelli emessi dell’esercito di Kiev, la cui offensiva non si arresta. Dopo aver riconquistato il 75% dei territori inizialmente occupati dai ribelli, le forze militari ucraine hanno rigettato sabato scorso la proposta di un cessate il fuoco avanzata dai separatisti al fine di impedire una “catastrofe umanitaria”. Secondo le stime dell’ONU, il numero dei profughi ha superato i 700 mila. Dall'inizio del conflitto, scoppiato ad aprile, le vittime sono più di 1500; i feriti quasi 4000.
A dispetto di un crescente nervosismo delle cancellerie occidentali, Kiev non sembra disposta ad arrestare le operazioni militari mentre Mosca risponde alle sanzioni di Stati Uniti ed Unione Europea con un embargo dei prodotti agroalimentari e ammassa 20.000 truppe sul confine con l’Ucraina (secondo Kiev, si tratterebbe di 45,000 ad oggi. Ma le cifre non sono ancora state verificate). Contro queste ultime, e il loro possibile utilizzo pretestuoso, si è pronunciata la NATO che teme un’invasione russa sotto forma di “operazione umanitaria”. La Casa Bianca ha immediatamente rilasciato una dichiarazione in cui rende noto che il Presidente Obama, in accordo col Premier britannico David Cameron e la Cancelliera tedesca Angela Merkel, considererà un qualsivoglia intervento russo che avvenisse senza consenso del governo ucraino, anche sotto “supposti auspici umanitari”, come una violazione del diritto internazionale. Come si spiega lo scenario attuale e qual è il suo impatto sull’alleanza atlantica?
L’ MH-17 e l’evoluzione della crisi
L’abbattimento dell’aereo della Malaysian Airlines lo scorso 18 luglio ha innescato almeno quattro dinamiche utili alla comprensione dei recenti sviluppi. La prima, una pronta e ferma risposta da parte degli Stati Uniti. Ad indagini in corso, con una rapidità eloquente, Obama è intervenuto accusando i separatisti filorussi di occultare la verità sulla tragedia. Ha invitato Putin a fare chiarezza, pena l’esclusione dalla comunità internazionale. Ha capitalizzato sullo sdegno, unanime e forte, delle opinioni pubbliche europee per esercitare pressione sull’UE, affinché inasprisse le sanzioni seguendo l’esempio statunitense. Lo ha fatto per rispondere alle critiche interne al suo paese, tanto da parte repubblicana quanto – seppure marginalmente – democratica, che lo accusavano di debolezza verso la Russia di Putin: neo-imperialista, capace di dettare i tempi della crisi ucraina relegando gli USA a posizioni reattive. L’uccisione dei 298 passeggeri e l’ostruzionismo nell’individuazione dei responsabili e nel recupero delle spoglie delle vittime hanno altresì ricompattato il fronte europeo, diviso e incerto rispetto al dossier delle sanzioni antirusse dal principio della crisi. Abbandonate alcune reticenze, il 29 luglio l’UE ha adottato una serie di misure economiche per spingere Mosca a bloccare il sostegno ai separatisti. Questa rinnovata coesione transatlantica ha rafforzato a sua volta la determinazione di Kiev. La terza dinamica riguarda infatti l’accelerazione delle operazioni militari delle forze ucraine, giunte appunto a riconquistare i tre quarti del territorio in mano ai ribelli filorussi. Scommettono, queste, sull’indisponibilità della Russia ad invadere il paese, cosa che provocherebbe una reazione da parte occidentale imponderabile allo stato attuale, ma certa. Mosca, dal canto suo, ha reagito alle pressioni occidentali con fermezza. Imponendo contro-sanzioni economiche e non ritirando truppe dal confine. Non ha però forzato la mano davanti all’inasprirsi dei combattimenti nell’est dell’Ucraina, dove i confini tra le roccaforti separatiste si sono fatti progressivamente meno definiti e dove il rischio di un’insurrezione antirussa, anche in quelle aeree, potrebbe essere difficile da calcolare in caso di invasione. Tutto ciò non rassicura però le potenze occidentali che temono, per l'appunto, un intervento mascherato da intenti umanitari.
In gioco è la collocazione dell’Ucraina nel sistema internazionale. L’annessione della Crimea, irreversibile, non ha alterato gli equilibri geopolitici nella regione. A modificarli sarebbe invece l’uscita del paese, per quanto amputato territorialmente, dalla zona di influenza russa. Ed è questa perdita che Putin cerca di minimizzare, mostrando dunque il vero costo della sconfitta che si è già consumata ai confini di Mosca. La forza dispiegata e minacciata dal Cremlino per impedire questo esito non pare infatti indicare la rinascita di un impero russo quanto piuttosto il suo contrario. La debolezza di uno Stato che ha visto l’alleanza atlantica allargarsi e giungere alle sue porte; i limiti di un modello di sviluppo rigettato dalle opinioni pubbliche dei paesi limitrofi entrati nell’UE o aspiranti membri.
E però questa debolezza non si traduce necessariamente nella forza degli altri attori coinvolti. Non certamente nella forza di un’Unione Europea che ha mostrato, una volta di più, la sua impreparazione davanti a teatri di crisi politica e militare. Per assenza di coesione interna; per limiti strutturali che derivano dall’essere integrata in un sistema di interdipendenze che vincolano la sua capacità di azione. In ultimo, perché teatro non più centrale per gli Stati Uniti. Che nella vicenda ucraina sono entrati riluttanti e, retorica a parte, subordinano a crisi che condizionano maggiormente l’America e il “suo posto nel mondo”, come ha chiarito Obama nella sua recente intervista al New York Times. Sono il Medio Oriente, il Nord Africa e ovviamente l’Asia, oggi, a dettare le priorità e la loro gestione non può prescindere dalla cooperazione con la Russia. Cruciale in molti teatri, più di quanto non lo sia l’Europa.
* Assegnista di ricerca nell’Università di Bologna
di Paolo Pombeni
di Giulia Guazzaloca
di Alessandra Bitumi *