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La stabilità politica ha un prezzo

Paolo Pombeni - 09.12.2020
Salvini e Meloni

Di nuovo il governo balla e traballa senza che si assista ad alcun serio tentativo di stabilizzare la situazione. Una parte dei media, soprattutto televisivi, si è assunta il ruolo dei pompieri sostenendo che insomma ci vuole dell’irresponsabilità per far cadere Conte e lasciare il paese senza governo in questo delicato momento, un’altra parte quasi specularmente veste i panni degli incendiari accusando l’esecutivo di insensibilità e stupidità nella gestione dell’emergenza.

La situazione è molto complicata e secondo qualche indiscrezione fatta trapelare lo stesso Mattarella si starebbe stancando di un contesto in cui ben pochi lavorano per dare un orizzonte di tranquillità al paese. La critica va soprattutto al premier Conte, anche se non è l’unico responsabile di questo stato di cose.

Il fatto è che non si riesce ad affrontare nessun problema, perché altrimenti si tocca qualche sensibilità nella maggioranza, ma soprattutto la perdurante crisi dei Cinque Stelle impedisce una chiarificazione del quadro politico. Così in queste nebbie Conte continua ad interpretare  una doppia parte, da un lato quella dell’indeciso a tutto per non mettersi in discussione, dall’altro quella dell’accentratore spregiudicato per costruirsi comunque una alleanza con i poteri forti della burocrazia e forse non solo quelli.

L’ultimo episodio è il tentativo di varare la struttura che deve gestire i mitici 209 miliardi che pioveranno dall’Europa (sperabilmente, perché purtroppo non è ancora stata detta l’ultima parola) accentrando intorno a sé un formidabile grumo di potere. La giustificazione è la solita: se si procede in maniera normale, la UE non ci darà le varie tranche del finanziamento, perché la previsione è che i progetti (ancora nel vago)  siano conclusi in sei anni, mentre il nostro ritmo normale di realizzazione per le opere sopra i 100 milioni è di quasi quindici anni. Allora l’unica soluzione è accentrare tutte le decisioni e soprattutto impedire tutta la sequela di controlli e contro controlli del nostro disastrato e bizantino sistema legislativo. Soluzione: una “struttura di missione” con al vertice il premier più il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo, sei grandi manager responsabili delle grandi aree di intervento supportati da una novantina di esperti.

Sembra per di più che si preveda che tutto sia gestito con i famigerati DPCM, cioè con atti amministrativi del presidente del consiglio non soggetti non solo ad approvazione parlamentare, ma neppure al vaglio previo del Quirinale. Se così fosse davvero saremmo di fronte ad una inaccettabile forzatura del nostro sistema costituzionale, per non dire di peggio.

Da un lato si creerebbe un meccanismo che comporta problemi notevoli. Stiamo parlando di spese che si snoderanno sull’arco di almeno sei anni (c’è anche la possibilità di qualche proroga) e ci sembra improbabile che questo governo duri così a lungo: in ogni modo nel 2023 finisce la legislatura e si andrà ad elezioni sostanzialmente un po’ più di un anno e mezzo dopo l’avvio degli investimenti (impossibile che i soldi europei arrivino effettivamente prima della seconda metà del 2021). Dunque allora, o magari prima viste le fibrillazioni della coalizione attuale, avremo un nuovo premier e due nuovi ministri che lo affiancano. Vorranno agire in continuità con questo governo?

Comunque sia ci si troverà a dover fare i conti coi sei grandi manager e loro corti che non potranno essere rimpiazzati così facilmente. Questi costituiranno il permanere dei poteri che li hanno messi al comando (Conte e suoi sodali) o agiranno in maniera indipendente, o peggio cambieranno idea per mantenere il favore dei nuovi referenti? (sono scenari già visti). Come si capisce non sono prospettive tranquillizzanti, perché stiamo parlando dell’impiego del più grande finanziamento immaginabile, in parte addirittura concesso a fondo perduto (cioè regalato) e perché se naufraghiamo su questa prova il futuro dell’Italia sarà compromesso per decenni.

Di fronte ad una prova di questa portata sarebbe doveroso attendersi che ci si organizzasse per costruire una grande coesione nazionale. La guida politica deve andare ad un governo che raccoglie una larga fiducia in questo momento e non sulla base dei risultati elettorali di più di due anni fa, senza protagonismi inutili, mentre per selezionare la necessaria articolazione tecnica si dovrebbe lavorare a sistemi di selezione ed investitura che garantiscano al massimo possibile contro le lottizzazioni (politiche e non solo) e anche contro i conflitti di interesse (tema delicatissimo nel momento in cui scegliendo dei manager questi avranno inevitabilmente storie e legami alle spalle).

E’ davvero sorprendente che il premier e il suo governo non mostrino alcuna consapevolezza di quanto sia delicato questo passaggio proprio dal punto di vista istituzionale, per non dire della credibilità politica loro e del sistema. La stabilità politica è un bene prezioso soprattutto nei momenti di grande emergenza, ma la stabilità va perseguita e costruita e dunque ha dei prezzi. Non la si ottiene con le furberie del detto e non detto nelle mozioni che devono tenere insieme il bianco e il nero, con i colpi di mano in nome di una presunta efficienza e altra robetta del genere.

Sono costruzioni sulla sabbia che non reggeranno la prima tempesta seria e che lasceranno macerie sul terreno. E’ finito il tempo della politica che si compatta gridando ai barbari alle porte (Salvini e Meloni). Anche quelli che temono i barbari si vanno convincendo che non è così che si salverà il paese.