La "socializzazione televisiva" del Paese (1954-1969)

Oggi l'esposizione ai mezzi di comunicazione di massa è continua e "facile", perché è a portata di mano, nel nostro cellulare, sul computer o in uno degli apparecchi televisivi di casa. C'è stato un tempo, però, del quale oggi si parla e si scrive pochissimo, in cui - alla sera - c'erano contadini capaci di prendere una sedia e portarla per alcuni chilometri, fino al bar del paese più vicino, pur di andare a vedere la Tv. In quel periodo, in talune zone d'Italia (Sardegna, Sicilia, Puglia, Basilicata e Calabria fino a tutto il 1956) il segnale della Rai non arrivava neppure. La distanza fra i possessori di apparecchi televisivi in casa, di fruitori in ambito condominiale o amicale, di spettatori nei bar (previo pagamento di una consumazione anche minima) non era solo dovuta al costo del voluminoso "nuovo caminetto" degli italiani (e neppure a quello dell'abbonamento, molto più costoso di oggi), ma a differenze sociali, economiche, territoriali, culturali. Le reazioni di fronte ai programmi della Rai del periodo nascente (1954-1969) non sono state mai univoche, ma hanno avuto una stretta relazione con la classe sociale degli spettatori, con i loro gusti. In quel tempo si è "unita l'Italia", hanno detto alcuni. Forse è più corretto affermare che quel paese nel quale gli addetti all'industria si apprestavano a superare gli agricoltori, diviso fra la modernità e le aree sprovviste persino di corrente elettrica e delle "piccole comodità" in casa (alcuni elettrodomestici oggi considerati basilari, come il frigorifero o la lavatrice, erano ben poco diffusi negli anni Cinquanta) si metteva in marcia verso un futuro che avrebbe cambiato i gusti, le tendenze (soprattutto in tema di spesa - da Carosello in poi - ma non solo) e la stessa cognizione della società. L'arrivo della Tv in un borgo sperduto (ce n'erano migliaia) significava avere accesso ad un mondo che si credeva lontano e del quale, forse, non si aveva neppure contezza. Per gli operai arrivati nelle grandi città del Nord e per i contadini la televisione esercitò un'attrattiva minore rispetto a quella suscitata sui giovani (che forse impararono fra gli anni Cinquanta e Sessanta a conoscere meglio il mondo che avrebbero contestato nel '68) e sulla media e piccola borghesia. Già agli albori, la televisione non piacque agli intellettuali (alcuni dei quali, però, erano autori di programmi di elevato spessore, ma anche di fortunati slogan pubblicitari e di trasmissioni "leggere" d'intrattenimento). Sta di fatto che, come racconta Damiano Garofalo nella sua "Storia sociale della televisione in Italia - 1954-1969" (Marsilio), rileggendo criticamente sia le vicende, sia i dati del Servizio Opinioni della Rai, sia le testimonianze dell’epoca, la televisione accompagnò e incoraggiò un mutamento che - visto oggi - appare (a nostro giudizio) insieme impetuoso e possente, capace di travolgere le divisioni fra un mondo in parte ancora feudale e arretrato e realtà già "europee", senza però essere in grado - da solo - di poter davvero creare una sintesi. La televisione cambiò le abitudini degli italiani (per quanto riguarda le ore dei pasti e del riposo, per esempio) e creò occasionali possibilità di socializzazione (nei luoghi pubblici dove erano presenti gli apparecchi, o nelle case di amici o conoscenti che ne possedevano). Fu un agente di alfabetizzazione (col maestro Manzi, per esempio) ma, circa i programmi, le preferenze restarono distinte (fra donne e uomini; fra classi sociali), tranne che in quel fenomeno che fu Lascia o raddoppia (la grande occasione per emergere, grazie al sapere nozionistico proprio di una certa concezione della cultura molto forte in quel tempo, per vincere, al termine della gara, fino a 5 milioni di lire dell'epoca: una somma ragguardevole). Criticata per aver spinto i consumi e aver trasformato lo spettatore in cliente, la televisione italiana degli anni Cinquanta e Sessanta è in realtà un laboratorio di idee - all'interno - e un esperimento sociale gigantesco - all'esterno. Qualcosa con cui la Chiesa (subito) e la politica (gradualmente, con la Dc in prima fila; i leader degli altri partiti appariranno in Tv solo con le Tribune del 1960) cominciano a misurarsi. Il mezzo che "porta il mondo in casa" promette di raffigurare la realtà (non necessariamente riproducendola in piena e totale fedeltà) ma svolge una funzione "educativa" e trasformatrice di abitudini e comportamenti sociali e personali. Sul piano degli effetti elettorali, come dimostrerà nel 1966 uno studio coordinato da Giorgio Galli per Il Mulino, l'unico partito ad avere una correlazione negativa con la maggior esposizione alla Tv sarà, alla fine, proprio la Dc (eterogenesi dei fini). Come scrive Massimo Scaglioni nella prefazione del libro, nel 1954 "l'esperienza del guardare la televisione è, ancora a lungo, del tutto diversa da quella (da salotto borghese, ndr) immaginata nel promo con Riva e Rabagliati, soprattutto per i ceti popolari, operai e contadini, che condividono solo molto raramente una fruizione domestica e borghese; il punto è dunque questo: non possiamo pensare ad una storia della televisione senza includervi la sua dimensione sociale e, più ampiamente, culturale". Come spiega Scaglione, "consumare la televisione e attribuire a questa pratica un particolare significato, resta però un elemento diversificante ancora per tutti gli anni Sessanta; per ognuno la televisione contribuisce diversamente ai processi di modernizzazione, alla ri-articolazione del tempo libero e dei consumi mediali, alla definizione degli spazi pubblici e privati". La Tv delle origini, afferma Garofalo, "andò a definire prima un ascolto pubblico, finendo per spostare l'asse del consumo attorno alla metà degli anni Sessanta, in una dimensione essenzialmente privata". Ad un iniziale "livello di fruizione orizzontale che finì per mescolare individui e gruppi sociali nello stesso luogo, nello stesso atto; travalicando la dimensione del tempo libero, il consumo di televisione si emancipava dalla cultura del divertimento, andando a definire uno spazio simbolico in cui interagivano geografie politiche e dialettiche dell'immaginario". Sebbene nei primi anni la partecipazione fosse collettiva, in gran parte nei luoghi pubblici, "la ricezione e la decodifica dei valori trasmessi rimasero fenomeni essenzialmente privati e individuali, dipendenti dall'habitus di provenienza, caratterizzati da un'intrinseca soggettività dello sguardo". Per le piccole comunità, aggiunge l'autore, la televisione produsse la riorganizzazione del tempo libero, "entrando in relazione con la vita associativa, familiare, amicale e politica che regolava le relazioni stesse". La cultura e i modelli di vita urbani, "diffusi anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, furono decisivi nel mutamento delle strutture familiari, che passavano sempre più da patriarcali a coniugali, per non parlare dei meccanismi di microconflittualità generazionale e di genere che questi nuovi consumi concepivano, indirizzati verso una trasformazione sociale a lungo raggio della famiglia italiana". Come afferma Garofalo, "nella messa in discussione delle strutture sociali e culturali appartenenti alla tradizione è dunque possibile leggere i movimenti del Sessantotto attraverso il filtro dei consumi televisivi; non più, cioè, in quanto fenomeni predeterminati dal miracolo economico, ma come una prima manifestazione visibile di quei processi trasformativi in seno ad esso". Alla maggiore acculturazione dei giovani - conclude - "contribuirono soprattutto canali non tradizionali come il cinema e la televisione, che permisero una più rilevante diffusione e condivisione di informazioni ed emozioni in un'ottica sempre più orizzontale; in questa fase, infatti, è possibile fare riferimento ad una sorta di identità multipla giovanile che, almeno per il momento, porta più che a uno scontro a un confronto generazionale". L'epoca della Tv degli albori si conclude, nel 1969, col più grande evento unificante e partecipato della nostra storia del Novecento: la trasmissione che, fra la serata e la notte del 20 luglio, racconta agli italiani lo sbarco dell'uomo sulla Luna, con tanto di siparietto fra Tito Stagno e Ruggero Orlando (sul momento esatto dell'allunaggio). Sul piano storico, invece, la grande illusione degli anni Sessanta finisce il pomeriggio del 12 dicembre 1969, in piazza Fontana, a Milano, con la strage alla Banca dell'Agricoltura. Andando a rileggere quell’annata del Radiocorriere (49/1969, p.112) abbiamo notato che per la seconda serata del 12 era in programma, sul canale Nazionale, la trasmissione de La tempesta di Puskin, mentre per sabato 13 era prevista la messa in onda della dodicesima puntata di Canzonissima, ovviamente sospesa e rinviata al 20 dicembre, durante la quale, per tragica ironia della sorte, Massimo Ranieri avrebbe dovuto cantare "Se bruciasse la città" e Gianni Morandi esibirsi con "Ma chi se ne importa". La favola bella di un paese sempre più ricco e felice era ormai finita tragicamente.
di Luca Tentoni