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14 dicembre 2024
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La riforma costituzionale rafforza il "sistema paese"

Maurizio Griffo * - 26.11.2016
Parlamento

Da alcuni giorni, nella campagna referendaria è tornato ad affacciarsi l'argomento economico. Si è tornati a dire, cioè, che nel caso in cui la riforma venisse respinta ci sarebbero conseguenze negative per la nostra economia. Fare previsioni è sempre azzardato, ma credo che l’Italia non si avvantaggerebbe da una vittoria dei no. Sarebbe una conferma, agli occhi degli stranieri, della nostra incapacità di riformarci, bollandoci come un paese da cui gli investitori fanno bene tenersi lontani. Tuttavia, più che speculare sui possibili effetti economici del voto, sarà il caso di richiamare l'attenzione su di un’altra, e più fondata, conseguenza economica che discenderebbe dall'approvazione delle modifiche costituzionali.

Da alcuni decenni, dopo la fine della guerra fredda e l'emersione delle "tigri" asiatiche, siamo entrati in una nuova fase storica, definita genericamente come  globalizzazione. Nuovi attori sono diventati protagonisti della scena economica internazionale, dislocando e rivoluzionando in breve tempo assetti produttivi che parevano consolidati, e mutando al tempo stesso le caratteristiche della divisione internazionale del lavoro. Di fronte a questo cambiamento epocale è stata a lungo coltivata l'illusione dell'imminente tramonto dello stato nazionale. La sovranità, si argomentava, tende a trasferirsi ad organismi sovra o sotto statali e per questo è utile, anzi vantaggioso, indebolire il potere dello stato. Si trattava di una idea errata. Soprattutto in questi ultimi anni, l’esperienza ha dimostrato che non solo lo stato nazionale non è tramontato, ma che esso resta l’interlocutore privilegiato in tutti gli ambiti. All’interno dell’Unione europea le trattative per la definizione degli interventi e dei riparti economici si svolge in negoziati tra gli stati membri. Sul piano degli accordi commerciali e di regolamentazione produttiva extra europea, questi sono sempre discussi, contrattati e approvati dagli stati. Riassuntivamente, insomma, possiamo dire che per sostenere la sfida della globalizzazione, cioè per poter reggere in maniera adeguata la concorrenza internazionale, occorre rafforzare la compagine statale ovvero quello che gli economisti chiamano anche il "sistema paese". Bisogna rendere cioè più coesa e coordinata l’organizzazione dello stato, in modo che possa supportare adeguatamente gli attori economici.

In Italia abbiamo seguito una strada opposta. Infatti, a partire dai primi anni novanta del secolo scorso, sulla scorta dell’emergenza leghista, cioè del successo della Lega nord, è passata l’idea che fosse opportuno decentrare le decisioni politiche. Così la nostra discussione pubblica è stata dominata dal paradigma federalista o devoluzionista. Questa idea di fondo ha guidato anche la riforma del titolo V della costituzione approvata nel 2001. Com’è noto, la riforma fu promossa dal governo di centro sinistra nella speranza (rivelatasi illusoria) di sottrarre voti al partito di Bossi e oggi di Salvini. La riforma ha aumentato notevolmente i poteri detenuti dalle regioni e ha diminuito i controlli dello stato centrale. Inoltre, creando materie di legislazione concorrente ha accresciuto il contenzioso tra stato e regioni.

La riforma costituzionale che adesso è sottoposta al vaglio degli elettori va nella direzione opposta a quella di quindici anni fa. I poteri delle regioni vengono ridotti, riportando allo stato centrale alcuni settori cruciali: energia, ambiente, grandi infrastrutture. Più in generale, poi, si afferma la supremazia statale, in ultima istanza, anche nelle materie di legislazione concorrente. Se da alcuni decenni le performances economiche dell’Italia sono state mediamente inferiori a quelle degli altri paesi europei, questo è dipeso, in una non trascurabile misura, anche dall’indebolimento della coesione nazionale. Approvare la riforma costituzionale significa perciò fare un passo utile per rafforzarla, dando così una mano anche all’economia.

 

 

 

 

* Insegna presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli